Uno più uno: la santità è contagiosa

L’orizzonte della santità cristiana alla luce dell’Esortazione apostolica "Gaudete et Exsultate" di Papa Francesco - Prima parte (la seconda nel prossimo numero di Aggancio) di una Conferenza organizzata dal Movimento Pro Sanctitate, tenuta a Noto da S.E. Mons. ROSARIO GISANA, Vescovo di Piazza Armerina


Tutto ciò che piace è attrattivo. La santità rientra in questa dimensione di allettamento? Fino a che punto, oggi, è vera l’affermazione: «la santità è contagiosa»? È chiaro che seduce ciò che è bello, ciò che provoca emozioni, ciò che scuote. Se, per esempio, venisse raccontata la vita di S. Teresa di Calcutta, la maggior parte resterebbe estasiata, conquistata dalla sua testimonianza esemplare, ma al contempo prenderebbe le dovute distanze, perché considererebbe quest’esperienza di fede eroica, non facilmente perseguibile. È vero: nella vita di un santo c’è sempre qualcosa di eroico, che gli appartiene in modo peculiare, che lo distingue per la sua singolare visione del mondo; non altro per le sue virtù che a molti mancano, per esempio la lungimiranza. Il santo è una persona che riesce a guardare lontano, ad intravedere quell’orizzonte di misericordia divina che lo porta a compiere azioni talvolta inconsuete. Quello che seduce è la sua vita semplice, umile, quel senso di ottimismo che lo caratterizza di fronte alle vicissitudini della vita; quella capacità di saper sedare l’ansia in situazioni che, di primo acchito, non hanno soluzioni immediate.
Quest’aspetto della vita del santo seduce fortemente. Sapere, per esempio, che si può vivere la vita, gestendo i suoi misteriosi dinamismi, è molto esaltante. Ma questa dimensione della santità non è istantanea, repentina, naturale. La vita di un santo rivela processi variegati di ascesi che lo portano sovente a non essere capito, accolto, soprattutto lo portano ad essere relegato in nicchie devozionaliste. È la ragione perché la maggior parte mostra nei confronti del santo quella forma di ossequio e venerazione che genera distanza: uno iato profondo che rileva l’aspetto funzionale ed economico della santità. Il santo avrebbe così il compito soltanto di intercedere e mediare auspici presso Dio, lasciandosi sullo sfondo la vera ragione della sua testimonianza: egli è voluto da Dio come modello di santità per la vita quotidiana.

1. LA SANTITÀ È CHIAMATA DISCEPOLARE
È molto significativo quello che afferma la Costituzione dogmatica Lumen gentium, al n. 40: «I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi». La vita di santità non è differente dalla vita umana, perché è legata, da un punto di vista cristiano, alla relazione con Gesù che è di tipo discepolare. Il santo è un discepolo di Gesù, la cui relazione comincia dal battesimo, la quale non dipende dal numero delle opere, bensì dalla ricezione di un preciso disegno di grazia. Sapere che la nostra vita è destinata da sempre alla santità, secondo alcune dinamiche iscritte nella nostra stessa natura umana, sconvolge, mutando persino il nostro modo di concepire la santificazione. La santità è battesimale, dono che si trasmette attraverso una decisione fondamentale di appartenenza a Gesù. Sceglierlo come Signore della propria vita significa dare alla santificazione un preciso orientamento. La vita di santità è vita condotta con Gesù, nel cercare di migliorare consapevolmente modi di relazione con lui. Da questo punto di vista, essere santo vuol dire semplicemente essere discepolo. Vuol dire tenere alta la misura del discepolato, secondo la chiamata di Gesù. Basterebbe ascoltare le clausole che Lc 9, 57-62 propone a fondamento della sequela, per capire l’equipollenza della santità con il discepolato. La severità delle esortazioni di Gesù fa capire che la santità reclama un modo speciale di stare dietro a lui.
L’elemento fondamentale per capire il valore della santità quotidiana è stare dietro a Gesù. È quello che stabilisce e verifica il grado di maturazione della nostra santità. L’espressione di Mc 1, 17: «seguitemi (deute opiso mu: coraggio, state dietro di me)» è sintomatica. Essa, con l’avverbio deute (orsù) che ha funzione esortativa, sottintende l’incoraggiamento, l’assistenza della grazia di Dio, e, con il sintagma opiso mu (dietro di me) chiarisce il senso della relazione santificata dall’intimità con Gesù. Ciò ha un duplice risvolto: da una parte, il sicuro accompagnamento di Dio, per il quale la santificazione è processo di autentica e reale umanizzazione, correttivo del modo con cui oggi si concepisce l’umano; dall’altra, il modello di santità, unico e irrepetibile, che è l’esistenza di Gesù, dalla quale si apprendono forme di bellezza per un’umanità umanizzata, secondo il principio della creazione. È quello che probabilmente desiderava esprimere Paolo con la frase di 1Tm 2, 4: Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità».
Nel disegno di Dio c’è chiaramente l’intenzione di condurre a santificazione tutta l’umanità, come d’altronde sottolinea ancora l’apostolo in Ef 1, 4: «In lui ci ha scelti, prima della creazione del mondo, per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità». La salvezza altro non è che quel processo di umanizzazione che nasce dalla santità di vita, la cui verità sta proprio nella scoperta consapevole dell’essere ad immagine di Dio. In questo disegno redentivo di Dio, la santificazione appartiene alla dimensione originaria della creaturalità. La santità specifica la nostra umanità, distinguendosi quest’ultima dalla natura angelica. Da qui si capisce pure la ragione perché il Verbo di Dio si è incarnato: al di là delle grandi motivazioni che possono essere proposte, quella molto plausibile, almeno secondo l’intuizione dell’apostolo sulla kainè ktìsis, (nuova creazione) di 2Cor 5, 17, è che non si sarebbe potuto trovare di meglio per l’incarnazione che l’umanità, sia perché essa, a causa del peccato, mostra fragilità e debolezza, sia perché la pienezza della sua essenza relazionale si attua unicamente in rapporto a Colui che è Santo: «Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Lv 19, 1).
La vita santa è allora iscritta nella nostra creaturalità e la somiglianza divina, secondo Gen 1, 26-27, ne costituisce il segno connotativo di appartenenza. Il discepolato cristiano non fa altro che rimarcare questo segno. L’atto della creazione infatti è frutto di un processo di santificazione, mediante cui Dio attua la plasmazione dell’uomo. L’ Adamo archetipale, che è l’umanità, porta il suo stesso respiro (Gen 2, 7: nella espressione ebraica = un alito di vita) ed è espressione di un travaglio in cui il Figlio e lo Spirito sono, come rammentava Ireneo, le mani del Creatore: «Non sono stati gli angeli a crearlo e plasmarlo [il primo uomo] – perché gli angeli non avrebbero potuto creare un’immagine di Dio – né alcun altro all’infuori del vero Dio, né una Potenza immensamente lontana dal Padre di tutte le cose. Dio non aveva bisogno di loro per creare ciò che aveva deciso di creare. Come se non avesse le sue Mani! Da sempre, infatti, gli sono accanto il Verbo e la Sapienza, il Figlio e lo Spirito» (IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses IV, 20, 1). Ciò dimostra che la santità è elemento di bellezza della creaturalità e che diventare santi risponde alla dignità della nostra origine. La creaturalità stessa è frutto di un processo in cui Dio lascia il segno della sua santificazione. Lo rileva Papa Francesco nell’Esortazione apostolica, Gaudete et exsultate, al n. 32: «Non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai ad essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere. Dipendere da Lui ci libera dalle schiavitù e ci porta a riconoscere la nostra dignità». La vita santa è insita nella nostra condizione umana, nel fatto cioè di essere creature di Dio che portano il segno di una relazione primigenia da ripristinare. Se ci si impegna a diventare santi, si ritrova la dignità della propria origine, la quale non può che comunicare un profondo senso di gioia commisto a consapevolezza di cosa vuol dire portare in se stessi l’immagine di Dio. La santificazione è un processo già in atto nell’esistenza fin dalla creaturalità: una prospettiva ben radicata, genetica, che tende a riproporre in modo nuovo l’umanizzazione del mondo. Diventare conformi a Gesù nel discepolato significa risvegliare questo processo per sé e per gli altri.
La santificazione del mondo, che è umanizzazione del mondo, dipende dalla decisione di ciascuno di noi a intraprendere con serietà il cammino del discepolato. Qui si scorge un aspetto della santità che è contagiosa. La sua bellezza desta in noi la nostalgia di quello che eravamo, quella sensibilità primordiale le cui emozioni lasciano intravedere ciò che sarebbe potuta essere l’umanità, se non ci fosse stato il peccato. L’umanità infatti riceve e custodisce la natura divina. L’atto redentivo di Gesù di Nazareth, con l’acclusa e pressante esortazione a seguirlo, ha in fondo questo scopo: riportare l’umanità alla sua origine che è umanizzazione o, per dirlo con altra categoria, divinizzazione. È quello che ha intuito l’apostolo, commentando l’opera della grazia (charis), guardando a Gesù: «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8, 9). Quest’opera stupefacente, di assoluta donazione di sé nello scambio, rivela quello che eravamo prima del peccato e quello che siamo con la redenzione di Cristo. Ciò fa capire il senso dell’eccedenza: la natura divina e la natura umana sono correlati, ma con diversa copulazione rispetto al Figlio di Dio. Noi partecipiamo della natura divina, perché Gesù, il figlio unigenito di Dio incarnato, media e attua tale partecipazione. La santità è contagiosa, perché stimola in noi qualcosa che ci è familiare, che ci appartiene da sempre. La divinizzazione dell’umanità è un processo di santificazione, già presente in noi, il quale ha raggiunto la sua pienezza con la redenzione di Cristo, ma si sta attuando in modo silente attraverso le numerose testimonianze dei santi. La loro cooperazione condiscendente è molto preziosa. Essi consentono di allargare abbondantemente la maglia della divinizzazione, affinché l’umanità santificata impari ad accogliere consapevolmente questo processo di santificazione. Esso avanza notevolmente, mentre cresce il numero dei santi, di quelle persone che hanno accettato e continuano ad accettare di intraprendere il cammino del discepolato.

2. LA BELLEZZA DELLA SANTITÀ NELLA VITA QUOTIDIANA
La partecipazione dei santi all’opera della divinizzazione o umanizzazione del mondo è dunque necessaria. Essa, rientrando nel piano redentivo di Dio, non invilisce l’atto di donazione di Cristo, il quale, al contrario, ha inaugurato quello che l’apostolo definisce «pienezza del tempo» (Gal 4, 4), che è pienezza di umanizzazione per il mondo. I santi, con la loro docile adesione, si muovono dentro questa nuova temporalità, irrepetibile, che è il tempo della redenzione, cioè un modo nuovo di concepire la relazione nell’umano. Essi infatti, pienamente conformati allo stile di vita di Gesù, promuovono il processo di santificazione con la medesima modalità di donazione. Ed è quest’apertura, gratuita, amabile e soprattutto discreta che sollecita e incrementa questo processo. La bellezza della santificazione non sta nei modi appariscenti ed eroici di un’ipotetica testimonianza discepolare, bensì in quello che Papa Francesco, in Gaudete et exsultate al n. 17, stabilisce criterio di autentica santità: «Afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario». Ed è quello che in verità osserviamo nella vita di Gesù, fin dalla sua infanzia, come ci suggerisce Lc 2, 52: «E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini». Questa duplice relazione, armoniosa, equilibrata, che coinvolge tre aspetti differenziati della crescita umana: la sapienza come esperienza di vita, l’età come crescita biologica e la grazia come assistenza divina, fa pensare che la santità non soltanto interessa la totalità dell’esistenza, ma mette pure sullo stesso piano Dio e l’uomo. Questa sfumatura, forse disorientante, consente di evitare alcune aberrazioni della vita di santità, aiuta cioè a contrastare quella tensione al perfezionismo che si cela, per il nostro narcisismo, in certe testimonianze che sono appannaggio della verità del vangelo. Quello che infatti contraddice la vita di santità è l’alienazione dalla vita stessa.
Il rischio è pregiudizievole, quasi a portata di mano, perché fa vivere dinamiche relazionali in modo distorto. Fissare, per esempio, l’attenzione solo su Dio porta a forme di spiritualità di tipo devozionalista, le quali non soltanto fanno perdere il senso della realtà, ma soprattutto non aiutano a capire quello che veramente riguarda Dio. Quest’atteggiamento, di apparente spiritualità, porta a guardare se stessi, credendo di contemplare Dio e di elevargli preghiere incessanti. È l’atteggiamento del fariseo che, salito al tempio, prega compiacendo se stesso: «stando in piedi pregava tra sé (pros eautòn tauta prosèucheto = pregava queste cose verso se stesso)» (Lc 18, 11). Esiste pure una spiritualità di tipo volontaristico, che concentra l’attenzione soltanto sull’uomo, che induce ad esasperare l’opera umana, prescindendo totalmente dall’assistenza di Dio. È chiaro che tale atteggiamento, anch’esso distorto, non favorisce la relazione con Dio, perché rifugge quello che per l’apostolo è invece stoltezza della croce, spazio privilegiato d’incontro e di vera conoscenza: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1, 28). Il giusto atteggiamento sta invece nella compensazione delle due coordinate, come chiaramente risulta dalla varietà delle relazioni che Gesù ha con la gente. La santità infatti è affermazione dell’accompagnamento di Dio in ogni cosa, del fatto che tutto è riconosciuto suo dono, dentro quella condizione di piccolezza in cui, per la nostra fragilità, si trova l’umanità. Lo esplica a tutto tondo Papa Francesco nell’Esortazione al n. 56: «Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più. La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi».
La bellezza della santità non dipende allora dai gesti eroici, ma dallo stato di umiltà in cui, alla maniera di Gesù, volutamente ci collochiamo. Scegliere questa via, che è poi la via maestra del discepolato (cfr. Mt 11, 29), significa lasciare che Dio agisca sulle nostre debolezze con la potenza della sua grazia. È quello che certamente desiderava ricordare Paolo con la sintomatica espressione: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza (en asthenèia telèitai = giunge a perfezione nella debolezza)» (2Cor 12, 9). Non è facile credere che la santità abbia, da questo punto di vista, tale scaturigine. Eppure i santi sono persone comuni, che hanno fatto esperienza della fragilità del peccato, che hanno imparato a fidarsi della misericordia di Dio e soprattutto hanno fatto delle loro debolezze un piano di redenzione per sé e per gli altri. Lo rammenta Papa Francesco nell’Esortazione al n. 3: «Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore».
A forza di accettare se stessi, che è la prospettiva giusta per maturare la consapevolezza dell’appartenenza a Dio, i santi hanno compreso che il segreto della santificazione sta nell’affidarsi continuamente a Dio. Forse c’è qui un’azione di tipo volontaristico; ma essa tuttavia è del tutto positiva, efficiente, creativa: fa maturare in noi la certezza dell’accompagnamento di Dio, mediante quel dono di umiltà che cresce nella consapevolezza, arrendevole e catartica, dei nostri limiti. Quando Paolo afferma che basta la grazia per crescere nella santità, cioè nella relazione con Dio in modo più cosciente possibile, intende parlare di quell’operazione redentiva che Gesù ha sancito con il dono della sua vita. Quest’operazione agisce efficacemente in chi si lascia condurre, in chi è umile, in chi sa offrire le sue debolezze senza mai ritorcerle sugli altri. Nella vita esemplare delle persone sante non vi sono inclinazioni alla santità di tipo genetico, salvo ovviamente quella disposizione primordiale che è la santità creaturale, ma l’intervento potente della chàris (grazia) di Gesù. Essa si mette in moto con la consapevolezza dei nostri limiti, accettati in modo oblativo, pacificato, riconciliato. Da quest’arrendevolezza davanti a Dio nasce l’umiltà, basamento esistenziale per il processo di santificazione. Non si può infatti essere santi, senza questa virtù che delimita serratamente il modo di concepire la santità. Papa Francesco, in Gaudete et exsultate al n. 7, lo esplica con coraggio: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere».

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