Anche quest’anno per il mese di marzo ci piace condividere con i Lettori alcune riflessioni su san Giuseppe che il Servo di Dio Guglielmo Giaquinta ha donato alla sua famiglia spirituale nelle omelie in occasione della sua ordinazione sacerdotale. In particolare l’omelia del 1982 nella quale colloca il suo sacerdozio dentro l’inquietudine esistenziale e il mistero della chiamata a rispondere con fede, chiamata rivolta a lui e a coloro che lo hanno seguito nell’avventura dell’annuncio della santità universale.
Ci è piaciuto coinvolgere i nostri Lettori anche nell’impegno a pregare per i sacerdoti, urgenza di questo nostro tempo.
Ci è piaciuto coinvolgere i nostri Lettori anche nell’impegno a pregare per i sacerdoti, urgenza di questo nostro tempo.
Fedeli alla risposta di fede,
anche se umanamente paradossale
19 marzo 1982
Dicevo all’inizio della S. Messa che questo è un momento di preghiera e di ringraziamento, ma anche di gioia di famiglia, di gioia fraterna; ci troviamo tutti insieme guardando un po’ il passato e insieme dando uno sguardo al domani e a quello che è già l’oggi.
Guardavo sull’altare il calice: forse non tutti sanno che è quello con cui ho celebrato la prima S. Messa 43 anni fa; un po’ vecchio, però ancora tanto bello. Direi che più gli anni passano più diventa prezioso, non tanto dal punto di vista del valore materiale ma da quello affettivo, per me e, penso, anche per voi.
Ma il calice ci parla del passato, non ci può parlare né del presente né tanto meno del domani. Qui sull’altare avremmo dovuto mettere qualche altra cosa: un telefono, con cui sentire vicini tutti quelli che fisicamente sono lontani e in questi giorni si sono fatti presenti. Penso all’America, alle varie case dell’Italia, all’India, al Belgio, a tutta quella realtà che è spiritualmente presente in mezzo a noi, questa sera.
Vorrei dirvi ora qualche cosa che mi sembra importante per me e, credo, anche per voi. Vorrei riandare un istante, per una revisione potremmo dire critica, al cliché che abbiamo ormai brevettato di S. Giuseppe e del sacerdote.
S. Giuseppe… Basta guardare le varie immagini: un buon vecchietto con la barba bianca che sta a guardare la Madonna e il Bambino, una creatura innocua, un uomo molto semplice, molto buono, non problematico, che ha ascoltato e ha ubbidito, che non ha vissuto delle grosse difficoltà, ma comunque ha superato tranquillamente quelle che ha avuto.
Anche l’immagine del sacerdote che fino a pochi anni fa abbiamo avuto è stereotipata: un uomo asettico, senza problemi, senza difficoltà, rinchiuso nella sua canonica, stimato, riverito, più o meno amato, comunque l’uomo di Dio, per cui le cose stanno bene anche quando eventualmente non è così. Una revisione critica nel senso elementare della parola elimina queste false immagini e mette in luce due realtà completamente differenti.
Giuseppe è l’uomo immerso nella inquietudine esistenziale e che a questa inquietudine dà una risposta di fede umanamente paradossale. Non è difficile evidenziare questo nella vita di Giuseppe, il quale indubbiamente è un uomo calato nel suo tempo, che ha vissuto in pieno in attesa del Messia le difficoltà diffuse un po’ in tutto il mondo che orbitava intorno alla Grecia e a Roma. Tutti allora guardavano verso la Palestina, e gli uomini della Palestina, gli Ebrei, avevano ormai la sensazione, che diventava un bisogno struggente, una preghiera accorata verso il Signore, che le nubi stessero per squarciarsi e venisse il Redentore, che dalla terra sorgesse il Messia.
Indubbiamente Giuseppe era uno di questi giovani, non certo uno zelota rivoluzionario, ma uno di questi giovani che sentivano fino in fondo la problematica del bisogno di liberazione. Incontra Maria, una creatura indubbiamente eccezionale. Voi comprendete quale sia stata la sua angoscia nel constatare una realtà che superava ogni possibilità di spiegazione ma che d’altra parte era innegabile: Maria attende un bimbo. È un dramma che Giuseppe vive in prima persona e che cerca di risolvere a suo danno, ma è pur sempre un dramma. Ci sarà poi la risposta dello Spirito, ma le cose non cambiano poi molto, perché il Bambino nasce come non dovrebbe nascere, in una grotta, è perseguitato come non dovrebbe essere perseguitato.
E al centro di tutto questo c’è sempre Giuseppe. La Madonna in un certo senso è in questo periodo una figura di secondo piano, anche se è la Madre di Cristo: è Giuseppe in primo piano, lui deve risolvere i problemi, finché poi scompare nel nulla. E la soluzione qual è? Quella di una fede che è umanamente paradossale. Le sue non sono le soluzioni normali: egli accetta Maria che aspetta un bambino, fugge in Egitto, ritorna dall’Egitto. Umanamente parlando c’è ben poco da riflettere, da pensare, c’è solo da accettare quello che la nostra intelligenza non è capace di racchiudere in schemi logici ben determinati.
Qualcosa di analogo è avvenuto per i sacerdoti. Noi siamo passati da una situazione tranquilla, inquadrata, fissa, veneranda, ad una completamente diversa. L’uomo di Dio che se ne stava tranquillamente nella sua canonica, riverito, stimato, forse amato, punto di riferimento sicuro per tante persone; di colpo, nel giro di pochi anni, lo abbiamo trovato nel vortice della inquietudine esistenziale.
Voi sapete quali siano state le conseguenze e come in un certo senso la Chiesa non abbia potuto dare delle risposte nuove, ma abbia continuato a dare le sue risposte, che sono risposte di fede, umanamente paradossali: bisogna essere così, bisogna conformarsi a Cristo. “Ma i tempi cambiano, la mentalità è diversa, la cultura è differente…”. Non ha importanza, bisogna rimanere aderenti agli schemi della fede, ai moduli della tradizione. Una risposta umanamente paradossale.
Voi direte: che cosa c’entra tutto questo con il momento che stiamo vivendo? Ecco, riandando agli anni passati e al mio sacerdozio, donatomi appunto la vigilia di S. Giuseppe – e altre volte vi ho raccontato come S. Giuseppe violentemente abbia voluto attrarmi alla consacrazione quel giorno – devo dire che il sacerdozio io l’ho vissuto in questi anni, direi fino ad oggi, nella situazione più imprevista e imprevedibile di inquietudine esistenziale.
Quando il 18 marzo fui ordinato sacerdote (il 19 celebrai la prima Santa Messa a S. Elena, la mia parrocchia) mai avrei immaginato che cosa sarebbe successo a settembre. Mi trovavo sulle Dolomiti col Seminario e improvvisamente venne la notizia dello scoppio della guerra. Da quel momento inizia veramente l’inquietudine esistenziale che ha sempre circondato il mio sacerdozio, dal periodo della guerra alla ricostruzione successiva, al periodo del pre-Concilio, piuttosto agitato ma non troppo, al Concilio, agitatissimo, al post-Concilio, in cui abbiamo avuto la bufera sacerdotale, fino a questi ultimi tempi. Qual è stata la risposta che il Signore ha voluto che io personalmente dessi a questa situazione di inquietudine esistenziale? Una risposta umanamente paradossale, che poteva sembrare un vaneggiare, che forse da qualcuno tale è stata ritenuta… Ad un mondo di belve – ricordo ancora, ce li ho dentro, non solo nelle orecchie ma nella carne, quei colpi di fuoco che ho sentito di prima mattina quando ero vice parroco alla Madonna dei Monti e sono passato poi per la via e ho visto il cadavere di un negro1 freddato da quei colpi; sono cose che non si possono dimenticare per tutta la vita – ad un mondo assurdo, fatto di violenza, di odio, di uccisione, dover parlare di santità! Una risposta umanamente paradossale, parlare di vocazione universale alla santità; anche quel negro ucciso era un chiamato alla santità, anche i due poliziotti americani che lo avevano ucciso erano chiamati alla santità.
Poi, in un secondo momento, la fraternità: una risposta che lascia ancora più perplessi, che è ancora più difficile, umanamente ancora più paradossale, perché al fondo il problema della santità si consuma all’interno del nostro rapporto con Dio, ma la fraternità è una realtà sociale che dobbiamo vivere, gomito a gomito, nella nostra vita di ogni giorno.
Eppure questa è stata la risposta che il Signore ha voluto che io dessi a quell’inquietudine esistenziale, fino all’ultimo anello: la risposta di fede, umanamente paradossale, di una Chiesa che, conservando tutta la sua ricchezza passata, attuale e in previsione del domani, sia essenzialmente una famiglia in cui il popolo di Dio si senta nato dal sacerdote, sacerdote anch’esso, in cammino coi suoi sacerdoti verso la santità e la fraternità.
Sono cose per me esaltanti, ma che per molte persone suonano semplicemente paradossali.
Perché vi dico questo? Non certo per fare l’esaltazione del passato, ma per indicarvi una linea del domani. Non illudiamoci, la vita della Chiesa e quindi la nostra vita, sia come Istituti che come forze apostoliche, dovrà sempre fare i conti con questa inquietudine esistenziale, e quindi non dobbiamo scoraggiarci. Gesù ai suoi ha detto che avrebbero avuto difficoltà con il mondo, però poi ha affermato: Io ho vinto il mondo (Gv 16, 33). Ebbene, a voi io dico: nel domani, nell’oggi indubbiamente, avremo delle difficoltà, perché non possiamo non essere immersi nella inquietudine esistenziale della Chiesa e del mondo, però dobbiamo avere il senso della fedeltà nel rispondere con la nostra fede, data dal nostro messaggio, anche se umanamente paradossale, anche se umanamente assurda.
E sono certo che quello che nell’oggi appare paradossale o assurdo, nel domani si rivelerà come la cosa più semplice e più normale. I tempi maturano verso questa risposta di fede umanamente paradossale. Potrei darvene la dimostrazione in tanti modi. Ricordate quello che un tempo dicevo circa la vocazione universale alla santità? Siamo arrivati al ’64 e questo miracolo si è compiuto. Quello che alcuni anni fa dicevo circa la fraternità sociale universale, sono passati appena pochissimi anni e prima ancora che io potessi immaginarlo è divenuto un discorso abituale di moltissime persone, di moltissime riviste, di moltissimi libri.
Potrei parlarvi anche di alcune mie esperienze recentissime: non lo faccio, anche perché non voglio stancarvi, però sappiate che il domani appartiene a voi a condizione che anche nelle situazioni di inquietudine esistenziale sappiate rimanere fedeli alla vostra risposta umanamente paradossale.
Ritorniamo a S. Giuseppe, ritorniamo alla Madonna, ritorniamo al Signore: la loro risposta è stata sempre una risposta di fede umanamente non comprensibile.
Abbiamo il coraggio di seguire oggi, e domani, questo esempio, di saper essere forti in questa risposta di fede, anche se umanamente paradossale.
Guardavo sull’altare il calice: forse non tutti sanno che è quello con cui ho celebrato la prima S. Messa 43 anni fa; un po’ vecchio, però ancora tanto bello. Direi che più gli anni passano più diventa prezioso, non tanto dal punto di vista del valore materiale ma da quello affettivo, per me e, penso, anche per voi.
Ma il calice ci parla del passato, non ci può parlare né del presente né tanto meno del domani. Qui sull’altare avremmo dovuto mettere qualche altra cosa: un telefono, con cui sentire vicini tutti quelli che fisicamente sono lontani e in questi giorni si sono fatti presenti. Penso all’America, alle varie case dell’Italia, all’India, al Belgio, a tutta quella realtà che è spiritualmente presente in mezzo a noi, questa sera.
Vorrei dirvi ora qualche cosa che mi sembra importante per me e, credo, anche per voi. Vorrei riandare un istante, per una revisione potremmo dire critica, al cliché che abbiamo ormai brevettato di S. Giuseppe e del sacerdote.
S. Giuseppe… Basta guardare le varie immagini: un buon vecchietto con la barba bianca che sta a guardare la Madonna e il Bambino, una creatura innocua, un uomo molto semplice, molto buono, non problematico, che ha ascoltato e ha ubbidito, che non ha vissuto delle grosse difficoltà, ma comunque ha superato tranquillamente quelle che ha avuto.
Anche l’immagine del sacerdote che fino a pochi anni fa abbiamo avuto è stereotipata: un uomo asettico, senza problemi, senza difficoltà, rinchiuso nella sua canonica, stimato, riverito, più o meno amato, comunque l’uomo di Dio, per cui le cose stanno bene anche quando eventualmente non è così. Una revisione critica nel senso elementare della parola elimina queste false immagini e mette in luce due realtà completamente differenti.
Giuseppe è l’uomo immerso nella inquietudine esistenziale e che a questa inquietudine dà una risposta di fede umanamente paradossale. Non è difficile evidenziare questo nella vita di Giuseppe, il quale indubbiamente è un uomo calato nel suo tempo, che ha vissuto in pieno in attesa del Messia le difficoltà diffuse un po’ in tutto il mondo che orbitava intorno alla Grecia e a Roma. Tutti allora guardavano verso la Palestina, e gli uomini della Palestina, gli Ebrei, avevano ormai la sensazione, che diventava un bisogno struggente, una preghiera accorata verso il Signore, che le nubi stessero per squarciarsi e venisse il Redentore, che dalla terra sorgesse il Messia.
Indubbiamente Giuseppe era uno di questi giovani, non certo uno zelota rivoluzionario, ma uno di questi giovani che sentivano fino in fondo la problematica del bisogno di liberazione. Incontra Maria, una creatura indubbiamente eccezionale. Voi comprendete quale sia stata la sua angoscia nel constatare una realtà che superava ogni possibilità di spiegazione ma che d’altra parte era innegabile: Maria attende un bimbo. È un dramma che Giuseppe vive in prima persona e che cerca di risolvere a suo danno, ma è pur sempre un dramma. Ci sarà poi la risposta dello Spirito, ma le cose non cambiano poi molto, perché il Bambino nasce come non dovrebbe nascere, in una grotta, è perseguitato come non dovrebbe essere perseguitato.
E al centro di tutto questo c’è sempre Giuseppe. La Madonna in un certo senso è in questo periodo una figura di secondo piano, anche se è la Madre di Cristo: è Giuseppe in primo piano, lui deve risolvere i problemi, finché poi scompare nel nulla. E la soluzione qual è? Quella di una fede che è umanamente paradossale. Le sue non sono le soluzioni normali: egli accetta Maria che aspetta un bambino, fugge in Egitto, ritorna dall’Egitto. Umanamente parlando c’è ben poco da riflettere, da pensare, c’è solo da accettare quello che la nostra intelligenza non è capace di racchiudere in schemi logici ben determinati.
Qualcosa di analogo è avvenuto per i sacerdoti. Noi siamo passati da una situazione tranquilla, inquadrata, fissa, veneranda, ad una completamente diversa. L’uomo di Dio che se ne stava tranquillamente nella sua canonica, riverito, stimato, forse amato, punto di riferimento sicuro per tante persone; di colpo, nel giro di pochi anni, lo abbiamo trovato nel vortice della inquietudine esistenziale.
Voi sapete quali siano state le conseguenze e come in un certo senso la Chiesa non abbia potuto dare delle risposte nuove, ma abbia continuato a dare le sue risposte, che sono risposte di fede, umanamente paradossali: bisogna essere così, bisogna conformarsi a Cristo. “Ma i tempi cambiano, la mentalità è diversa, la cultura è differente…”. Non ha importanza, bisogna rimanere aderenti agli schemi della fede, ai moduli della tradizione. Una risposta umanamente paradossale.
Voi direte: che cosa c’entra tutto questo con il momento che stiamo vivendo? Ecco, riandando agli anni passati e al mio sacerdozio, donatomi appunto la vigilia di S. Giuseppe – e altre volte vi ho raccontato come S. Giuseppe violentemente abbia voluto attrarmi alla consacrazione quel giorno – devo dire che il sacerdozio io l’ho vissuto in questi anni, direi fino ad oggi, nella situazione più imprevista e imprevedibile di inquietudine esistenziale.
Quando il 18 marzo fui ordinato sacerdote (il 19 celebrai la prima Santa Messa a S. Elena, la mia parrocchia) mai avrei immaginato che cosa sarebbe successo a settembre. Mi trovavo sulle Dolomiti col Seminario e improvvisamente venne la notizia dello scoppio della guerra. Da quel momento inizia veramente l’inquietudine esistenziale che ha sempre circondato il mio sacerdozio, dal periodo della guerra alla ricostruzione successiva, al periodo del pre-Concilio, piuttosto agitato ma non troppo, al Concilio, agitatissimo, al post-Concilio, in cui abbiamo avuto la bufera sacerdotale, fino a questi ultimi tempi. Qual è stata la risposta che il Signore ha voluto che io personalmente dessi a questa situazione di inquietudine esistenziale? Una risposta umanamente paradossale, che poteva sembrare un vaneggiare, che forse da qualcuno tale è stata ritenuta… Ad un mondo di belve – ricordo ancora, ce li ho dentro, non solo nelle orecchie ma nella carne, quei colpi di fuoco che ho sentito di prima mattina quando ero vice parroco alla Madonna dei Monti e sono passato poi per la via e ho visto il cadavere di un negro1 freddato da quei colpi; sono cose che non si possono dimenticare per tutta la vita – ad un mondo assurdo, fatto di violenza, di odio, di uccisione, dover parlare di santità! Una risposta umanamente paradossale, parlare di vocazione universale alla santità; anche quel negro ucciso era un chiamato alla santità, anche i due poliziotti americani che lo avevano ucciso erano chiamati alla santità.
Poi, in un secondo momento, la fraternità: una risposta che lascia ancora più perplessi, che è ancora più difficile, umanamente ancora più paradossale, perché al fondo il problema della santità si consuma all’interno del nostro rapporto con Dio, ma la fraternità è una realtà sociale che dobbiamo vivere, gomito a gomito, nella nostra vita di ogni giorno.
Eppure questa è stata la risposta che il Signore ha voluto che io dessi a quell’inquietudine esistenziale, fino all’ultimo anello: la risposta di fede, umanamente paradossale, di una Chiesa che, conservando tutta la sua ricchezza passata, attuale e in previsione del domani, sia essenzialmente una famiglia in cui il popolo di Dio si senta nato dal sacerdote, sacerdote anch’esso, in cammino coi suoi sacerdoti verso la santità e la fraternità.
Sono cose per me esaltanti, ma che per molte persone suonano semplicemente paradossali.
Perché vi dico questo? Non certo per fare l’esaltazione del passato, ma per indicarvi una linea del domani. Non illudiamoci, la vita della Chiesa e quindi la nostra vita, sia come Istituti che come forze apostoliche, dovrà sempre fare i conti con questa inquietudine esistenziale, e quindi non dobbiamo scoraggiarci. Gesù ai suoi ha detto che avrebbero avuto difficoltà con il mondo, però poi ha affermato: Io ho vinto il mondo (Gv 16, 33). Ebbene, a voi io dico: nel domani, nell’oggi indubbiamente, avremo delle difficoltà, perché non possiamo non essere immersi nella inquietudine esistenziale della Chiesa e del mondo, però dobbiamo avere il senso della fedeltà nel rispondere con la nostra fede, data dal nostro messaggio, anche se umanamente paradossale, anche se umanamente assurda.
E sono certo che quello che nell’oggi appare paradossale o assurdo, nel domani si rivelerà come la cosa più semplice e più normale. I tempi maturano verso questa risposta di fede umanamente paradossale. Potrei darvene la dimostrazione in tanti modi. Ricordate quello che un tempo dicevo circa la vocazione universale alla santità? Siamo arrivati al ’64 e questo miracolo si è compiuto. Quello che alcuni anni fa dicevo circa la fraternità sociale universale, sono passati appena pochissimi anni e prima ancora che io potessi immaginarlo è divenuto un discorso abituale di moltissime persone, di moltissime riviste, di moltissimi libri.
Potrei parlarvi anche di alcune mie esperienze recentissime: non lo faccio, anche perché non voglio stancarvi, però sappiate che il domani appartiene a voi a condizione che anche nelle situazioni di inquietudine esistenziale sappiate rimanere fedeli alla vostra risposta umanamente paradossale.
Ritorniamo a S. Giuseppe, ritorniamo alla Madonna, ritorniamo al Signore: la loro risposta è stata sempre una risposta di fede umanamente non comprensibile.
Abbiamo il coraggio di seguire oggi, e domani, questo esempio, di saper essere forti in questa risposta di fede, anche se umanamente paradossale.
Un appello attuale oggi: preghiamo per i sacerdoti!
18 marzo 1978
18 marzo 1978
Chiediamo al Signore che i sacerdoti riescano a scoprire la loro vocazione di affinità al grande Giuseppe, ad un Giuseppe che è totalmente donato, pienamente disponibile nei confronti di Maria e di Gesù, della Chiesa, di tutti. Giuseppe si dona nella umiltà, nel silenzio, nella preghiera, nella vita interiore.
Così deve vivere il sacerdote: preghiera, umiltà, donazione incondizionata. Cristo diventi il cuore della nostra vita sacerdotale. Che noi sacerdoti comprendiamo di dover essere l’ombra di Cristo, perché noi non siamo nulla, Lui è tutto, ma Lui arriva attraverso noi e noi dobbiamo sentirci in funzione di Lui. Pregate perché ogni sacerdote riesca a comprendere questo suo rapporto essenziale e strumentale con Cristo.
E poi la Madonna: non possiamo separare Giuseppe dalla Madonna, non possiamo separare il sacerdote dalla Madonna. Che tutti i sacerdoti ritrovino la loro Mamma celeste: in questa trilogia – Chiesa, Cristo, Maria – potranno attuare completamente la loro missione.
Ecco perché vi chiedo: pregate per i sacerdoti.
Così deve vivere il sacerdote: preghiera, umiltà, donazione incondizionata. Cristo diventi il cuore della nostra vita sacerdotale. Che noi sacerdoti comprendiamo di dover essere l’ombra di Cristo, perché noi non siamo nulla, Lui è tutto, ma Lui arriva attraverso noi e noi dobbiamo sentirci in funzione di Lui. Pregate perché ogni sacerdote riesca a comprendere questo suo rapporto essenziale e strumentale con Cristo.
E poi la Madonna: non possiamo separare Giuseppe dalla Madonna, non possiamo separare il sacerdote dalla Madonna. Che tutti i sacerdoti ritrovino la loro Mamma celeste: in questa trilogia – Chiesa, Cristo, Maria – potranno attuare completamente la loro missione.
Ecco perché vi chiedo: pregate per i sacerdoti.
Nella consapevolezza che siamo agli ultimi numeri cartacei della nostra Rivista ci è parso dolce e cortese regalare a chi ci segue un testo di Giuliana Spigone, oblata apostolica (19372007), nel quale ci indica san Giuseppe e il Servo di Dio Giaquinta come testimoni da imitare.
È ciò che auguriamo ai nostri Lettori.
È ciò che auguriamo ai nostri Lettori.
Oggi insieme con Giuseppe, lo sposo “giusto”, il padre buono, il custode premuroso, l’umile strumento di Dio, entriamo in dialogo anche con Maria, Colei che riceve il primo annuncio della Redenzione; e ci sintonizziamo ancora una volta con il nostro padre Guglielmo nella ricorrenza della sua ordinazione sacerdotale, dono fatto a lui per la salvezza di tanti fratelli.
A fondamento di questo nostro dialogo, dunque, ci sono S. Giuseppe, la Vergine Maria e padre Guglielmo, che muovono il nostro cuore, fanno meditare la nostra mente e ci conducono verso un’unica direzione da vivere pienamente come Oblate Apostoliche2, la direzione del sacerdozio, del ministero, del servizio.
Certo S. Giuseppe non è stato sacerdote nel senso sacramentale, ma tutto ciò che egli ha fatto per Gesù e accanto a Gesù, quello spezzare con il Figlio di Maria il pane quotidiano, la custodia amorosa e i saggi insegnamenti, la presenza discreta e responsabile in famiglia e al lavoro, la testimonianza di fede e di preghiera e di interiorità, proprio questo diventa la prima forma cristiana di ministero sacerdotale. Lo vive Giuseppe, insieme a Maria, che è sposa e madre e sorella, ma che certamente non possiamo chiamare sacerdote.
Eppure ogni gesto, ogni pensiero della Madonna è sacerdotale: quando sta adorante in ascolto della Parola eterna, quando porge la sua offerta sacrificale alla luce di una spada che le trafiggerà l’anima, quando in silenzio segue le orme del Figlio condannato e poi, morto, lo accoglie di nuovo nel suo grembo. Sempre la riconosciamo intenta nel suo ministero esercitato in obbedienza alla volontà del Padre, sempre possiamo contemplarla “corredentrice”.
E accanto a Maria il sacerdozio del nostro Fondatore. Tutto della sua persona e della sua opera scaturisce dal sacramento dell’Ordine che ha ricevuto in quel 18 marzo 1939: la radicalità della consacrazione, la profonda spiritualità, lo specifico della fondazione che fiorisce da una radice profonda, la santità di Dio, e si dirama nella santità universale.
Per noi la Solennità di S. Giuseppe coincide con la festa del sacerdozio del nostro ‘Padre’: tanto parliamo di lui e tanto parliamo agli altri attraverso i suoi scritti. Se dovessi in brevi linee fare il disegno della sua santità sacerdotale, direi solo tre parole, tre amori: l’Eucaristia, la Madonna, la Chiesa, programma ascetico e dolcissimo della sua vita già dal Seminario, reso autentico in ogni Celebrazione Eucaristica. Vorrei invece parlare con voi degli aspetti più semplici della sua vita, quelli che hanno fatto di un uomo ordinario un sacerdote straordinario.
Umiltà: sapeva domandare scusa con libertà di cuore, non si atteggiava mai ad esperto di qualcosa, esperto di spiritualità, di direzione spirituale; non chiedeva mai nulla se non “prega per me”.
Comportamento dignitoso, educato: non conosceva gli alti e le flessioni di certi caratteri. Uguaglianza di carattere, non instabilità. Perciò poteva dire: “Figlie mie, non siate come l’altalena, ora giù ora su”.
Amico della riservatezza: non parlava di sé, ascoltava molto, parlava sempre con Dio.
Sapeva ispirare fiducia: non richiedeva se non quello che metteva in pratica lui stesso; lo aveva appreso da S. Francesco di Sales.
Era tipicamente un uomo ordinato, amava l’ordine in modo bonario, e invitava ad essere ordinate anche nella persona. “Custodisci l’ordine e l’ordine ti custodirà”, ripeteva spesso. Ordine interiore e ordine esteriore. Curava anche le piccole cose.
Esse fidelem in minimis. Fedeltà nel quotidiano, specialmente nella carità: non ridicolizzava mai nessuno, sviava il discorso quando non rimproverava apertamente, con forza.
Con sapienza si adattava alle diverse età: le giovani aprivano la loro coscienza; i familiari, a qualunque ceto sociale appartenessero, restavano sorpresi della facilità con cui sapeva mettere tutti a proprio agio.
Era un padre, forse non “un papà” come oggi più comunemente viene detto. Un padre: pure le sacrosante paternali, che a volte non accettavamo, sapevano di tenerezza paterna. Un padre per tutti e per ognuno senza parzialità, anche se nella nostra poca saggezza pensavamo al contrario: “per ognuno il Signore ha tracciato un cammino, diceva, ed io non sono che uno strumento imperfetto nelle mani di Dio”.
Non conosceva retorica nel parlarci, era amabile e fermo. Mirava a formare delle comunità una grande famiglia profumata di carità; voleva che tutte si sentissero a casa, non soltanto per “rilassarsi”, ma per condividere la fatica, i sogni, l’ideale, l’accoglienza, la preghiera.
Intellettuale attento e sobrio, per capire e interpretare ciò che si muove intorno. “Ci sono dei fatti nella nostra vita sociale che noi non possiamo ignorare; ci sono delle correnti di pensiero e politiche, degli avvenimenti dei quali noi dobbiamo essere informati per farne una lettura giusta, vera e comprendere su quali linee il mondo si muove intorno a noi”, ci diceva.
Cultura umanistica, spirituale, teologica: attorno ad essa tutto un fiorire di scienze laterali, necessarie per la comprensione della scienza di Dio. Studio, conoscenza, approfondimento, apertura della mente e del cuore, soprattutto nel cercare di approfondire la vocazione universale alla santità, per poterne poi parlare con competenza e facilità, per essere sempre più degne della grande missione che Dio ci ha affidato (cfr PROGRAMMA DI VITA SPRITUALE, pag. 134).
Invitava alla lettura, a conoscere i santi, non per fare solo la mostra della santità, ma per imitare la vita di coloro che ci insegnano la via che conduce all’Amore e alla fraternità.
Era sempre aggiornato su tutto, sui documenti della Chiesa, sulle realtà sociali per farne una lettura di redenzione, per aiutare anche noi a migliorare una società bisognosa di Dio. Preghiera, sacrificio, silenzio da cui scaturisce una evangelizzazione autentica.
Presentì l’aria nuova del Concilio Vaticano, fu attento ad ogni rinnovamento liturgico, pastorale, ecc., ma sempre in obbedienza alla Chiesa. Noi vogliamo quello che la Chiesa vuole; pensiamo quello che la Chiesa pensa; agiamo in quella direzione in cui la Chiesa vuole che noi ci avviamo. E lo diceva con amore di figlio. “Come è buona la Chiesa! ripeteva spesso, con me, con il nostro Istituto”. Devozione, amore, obbedienza al Papa, fonte dell’unità, Gesù in terra da ascoltare e imitare.
Ancora un’ultima cosa: è stato il sacerdote della fiducia. Il lavoro del sacerdote richiede costante fatica e pazienza. Domanda fede nella potenza di Dio, Duc in altum, perché il lavoro del pescatore è duro: Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla, ma sulla tua parola getterò le reti (Lc 5,45). Sapeva bene che gli uomini si pescano grazie alla forza della Parola di Dio, la quale possiede un suo dinamismo. Non si è fatto mai prendere dalla fretta, ma restava in atteggiamento di attenta vigilanza per cogliere i tempi di Dio.
Alla scuola di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo. Guida esperta fu per lui la Fiducia. Forse Maria parlava a lui come agli Apostoli con parole di conforto e di sostegno durante i giorni della sua ordinazione, durante gli anni del sorgere degli Istituti, nei giorni difficili dell’episcopato. Lasciamo che Maria parli anche a noi: “Quando le fatiche dell’apostolato si fanno sentire e gli insuccessi portano allo scoraggiamento, è allora che comincia la parte migliore della pesca, quella che poggia sulla sua Parola; fate quello che Lui vi dirà, pregate, siate in comunione” (Giovanni Paolo II).
A fondamento di questo nostro dialogo, dunque, ci sono S. Giuseppe, la Vergine Maria e padre Guglielmo, che muovono il nostro cuore, fanno meditare la nostra mente e ci conducono verso un’unica direzione da vivere pienamente come Oblate Apostoliche2, la direzione del sacerdozio, del ministero, del servizio.
Certo S. Giuseppe non è stato sacerdote nel senso sacramentale, ma tutto ciò che egli ha fatto per Gesù e accanto a Gesù, quello spezzare con il Figlio di Maria il pane quotidiano, la custodia amorosa e i saggi insegnamenti, la presenza discreta e responsabile in famiglia e al lavoro, la testimonianza di fede e di preghiera e di interiorità, proprio questo diventa la prima forma cristiana di ministero sacerdotale. Lo vive Giuseppe, insieme a Maria, che è sposa e madre e sorella, ma che certamente non possiamo chiamare sacerdote.
Eppure ogni gesto, ogni pensiero della Madonna è sacerdotale: quando sta adorante in ascolto della Parola eterna, quando porge la sua offerta sacrificale alla luce di una spada che le trafiggerà l’anima, quando in silenzio segue le orme del Figlio condannato e poi, morto, lo accoglie di nuovo nel suo grembo. Sempre la riconosciamo intenta nel suo ministero esercitato in obbedienza alla volontà del Padre, sempre possiamo contemplarla “corredentrice”.
E accanto a Maria il sacerdozio del nostro Fondatore. Tutto della sua persona e della sua opera scaturisce dal sacramento dell’Ordine che ha ricevuto in quel 18 marzo 1939: la radicalità della consacrazione, la profonda spiritualità, lo specifico della fondazione che fiorisce da una radice profonda, la santità di Dio, e si dirama nella santità universale.
Per noi la Solennità di S. Giuseppe coincide con la festa del sacerdozio del nostro ‘Padre’: tanto parliamo di lui e tanto parliamo agli altri attraverso i suoi scritti. Se dovessi in brevi linee fare il disegno della sua santità sacerdotale, direi solo tre parole, tre amori: l’Eucaristia, la Madonna, la Chiesa, programma ascetico e dolcissimo della sua vita già dal Seminario, reso autentico in ogni Celebrazione Eucaristica. Vorrei invece parlare con voi degli aspetti più semplici della sua vita, quelli che hanno fatto di un uomo ordinario un sacerdote straordinario.
Umiltà: sapeva domandare scusa con libertà di cuore, non si atteggiava mai ad esperto di qualcosa, esperto di spiritualità, di direzione spirituale; non chiedeva mai nulla se non “prega per me”.
Comportamento dignitoso, educato: non conosceva gli alti e le flessioni di certi caratteri. Uguaglianza di carattere, non instabilità. Perciò poteva dire: “Figlie mie, non siate come l’altalena, ora giù ora su”.
Amico della riservatezza: non parlava di sé, ascoltava molto, parlava sempre con Dio.
Sapeva ispirare fiducia: non richiedeva se non quello che metteva in pratica lui stesso; lo aveva appreso da S. Francesco di Sales.
Era tipicamente un uomo ordinato, amava l’ordine in modo bonario, e invitava ad essere ordinate anche nella persona. “Custodisci l’ordine e l’ordine ti custodirà”, ripeteva spesso. Ordine interiore e ordine esteriore. Curava anche le piccole cose.
Esse fidelem in minimis. Fedeltà nel quotidiano, specialmente nella carità: non ridicolizzava mai nessuno, sviava il discorso quando non rimproverava apertamente, con forza.
Con sapienza si adattava alle diverse età: le giovani aprivano la loro coscienza; i familiari, a qualunque ceto sociale appartenessero, restavano sorpresi della facilità con cui sapeva mettere tutti a proprio agio.
Era un padre, forse non “un papà” come oggi più comunemente viene detto. Un padre: pure le sacrosante paternali, che a volte non accettavamo, sapevano di tenerezza paterna. Un padre per tutti e per ognuno senza parzialità, anche se nella nostra poca saggezza pensavamo al contrario: “per ognuno il Signore ha tracciato un cammino, diceva, ed io non sono che uno strumento imperfetto nelle mani di Dio”.
Non conosceva retorica nel parlarci, era amabile e fermo. Mirava a formare delle comunità una grande famiglia profumata di carità; voleva che tutte si sentissero a casa, non soltanto per “rilassarsi”, ma per condividere la fatica, i sogni, l’ideale, l’accoglienza, la preghiera.
Intellettuale attento e sobrio, per capire e interpretare ciò che si muove intorno. “Ci sono dei fatti nella nostra vita sociale che noi non possiamo ignorare; ci sono delle correnti di pensiero e politiche, degli avvenimenti dei quali noi dobbiamo essere informati per farne una lettura giusta, vera e comprendere su quali linee il mondo si muove intorno a noi”, ci diceva.
Cultura umanistica, spirituale, teologica: attorno ad essa tutto un fiorire di scienze laterali, necessarie per la comprensione della scienza di Dio. Studio, conoscenza, approfondimento, apertura della mente e del cuore, soprattutto nel cercare di approfondire la vocazione universale alla santità, per poterne poi parlare con competenza e facilità, per essere sempre più degne della grande missione che Dio ci ha affidato (cfr PROGRAMMA DI VITA SPRITUALE, pag. 134).
Invitava alla lettura, a conoscere i santi, non per fare solo la mostra della santità, ma per imitare la vita di coloro che ci insegnano la via che conduce all’Amore e alla fraternità.
Era sempre aggiornato su tutto, sui documenti della Chiesa, sulle realtà sociali per farne una lettura di redenzione, per aiutare anche noi a migliorare una società bisognosa di Dio. Preghiera, sacrificio, silenzio da cui scaturisce una evangelizzazione autentica.
Presentì l’aria nuova del Concilio Vaticano, fu attento ad ogni rinnovamento liturgico, pastorale, ecc., ma sempre in obbedienza alla Chiesa. Noi vogliamo quello che la Chiesa vuole; pensiamo quello che la Chiesa pensa; agiamo in quella direzione in cui la Chiesa vuole che noi ci avviamo. E lo diceva con amore di figlio. “Come è buona la Chiesa! ripeteva spesso, con me, con il nostro Istituto”. Devozione, amore, obbedienza al Papa, fonte dell’unità, Gesù in terra da ascoltare e imitare.
Ancora un’ultima cosa: è stato il sacerdote della fiducia. Il lavoro del sacerdote richiede costante fatica e pazienza. Domanda fede nella potenza di Dio, Duc in altum, perché il lavoro del pescatore è duro: Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla, ma sulla tua parola getterò le reti (Lc 5,45). Sapeva bene che gli uomini si pescano grazie alla forza della Parola di Dio, la quale possiede un suo dinamismo. Non si è fatto mai prendere dalla fretta, ma restava in atteggiamento di attenta vigilanza per cogliere i tempi di Dio.
Alla scuola di Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo. Guida esperta fu per lui la Fiducia. Forse Maria parlava a lui come agli Apostoli con parole di conforto e di sostegno durante i giorni della sua ordinazione, durante gli anni del sorgere degli Istituti, nei giorni difficili dell’episcopato. Lasciamo che Maria parli anche a noi: “Quando le fatiche dell’apostolato si fanno sentire e gli insuccessi portano allo scoraggiamento, è allora che comincia la parte migliore della pesca, quella che poggia sulla sua Parola; fate quello che Lui vi dirà, pregate, siate in comunione” (Giovanni Paolo II).
a cura di Teresa Carboni
1 È appena il caso di far presente che l’espressione ‘negro’, al tempo era usata in lingua italiana senza alcuna valenza negativa, indicando semplicemente un uomo di colore. Oggi, per influenza del linguaggio americano, si preferisce usare l’espressione ‘nero’: non abbiamo però voluto cambiarla, affidandoci per il resto all’intelligenza del lettore (nota della Redazione)
2 Si rivolgeva all’Istituto Secolare delle Oblate Apostoliche Pro Sanctitate
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