Nel deserto, semi di speranza

APPROFONDIMENTI - Seconda parte, Nuovo Testamento

A proposito del lessico. Dopo aver affrontato il tema del deserto nell’AT, cerchiamo di capire il ruolo che esso assume nel NT. È necessario precisare subito che il termine greco eremos, tradotto spesso con “deserto”, non coincide con l’ebraico midbar, anch’esso abitualmente reso con “deserto”; eremos esprime principalmente l’aspetto solitario di un posto, privo di abitanti o scarsamente popolato. È quindi indispensabile, quando si analizza un brano, studiare il suo contesto letterario in modo da capire se l’autore voleva descrivere la geografia del territorio oppure l’aspetto demografico; in altri termini, se il testo usa eremos bisogna distinguere se si tratta di un luogo privo di vegetazione o semplicemente non frequentato da esseri umani. Il brano della moltiplicazione dei pani può chiarire il concetto: “Allora Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: ‘sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la strada’. E i discepoli gli dissero: ‘Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?’ Ma Gesù domandò: ‘Quanti pani avete?’. Risposero: ‘Sette, e pochi pesciolini’. Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, Gesù prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li dava ai discepoli, e i discepoli li distribuivano alla folla” (Mt 15, 32-35). Sembra abbastanza evidente che quando i discepoli parlano di un “deserto” non si riferiscono alla geografia del posto, ma semplicemente al fatto che la località non presentava insediamenti umani nei quali approvvigionarsi di cibo. La giustificazione si trova nel contesto; la scena, infatti, si svolge sulle rive del lago di Tiberiade che non presenta zone desertiche, ma piuttosto località più o meno popolate. Un ulteriore esempio, ancora più chiaro, si trova nel testo di Marco 6, 30-44; Gesù si ritira con i discepoli in un luogo solitario (eremon topon), che palesemente non è una zona desertica, ma semplicemente priva di centri abitati. Infatti, egli, prima di iniziare la moltiplicazione dei pani, ordina che la gente si sieda sull’erba (v. 39); si tratta di un particolare che dimostra come eremos in questo caso è un aggettivo da intendersi come “solitario”.

Il deserto nel Nuovo Testamento. Fatta questa premessa di carattere lessicale, il NT utilizza il vocabolo eremos 48 volte circa, di cui 41 nei vangeli. Esso può essere usato come sostantivo o come aggettivo: quando è sostantivo in genere corrisponde all’ebraico midbar, mentre quando è aggettivo, attributo di luogo, ha il significato prevalente di “solitario”. Certamente il termine “deserto” è adoperato nel senso più stretto quando gli evangelisti descrivono l’ambiente in cui si svolge la predicazione di Giovanni Battista: “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati” (Mc 1, 3-5). Qualcuno potrebbe trovare strano che Giovanni battezzi nel deserto, nel fiume Giordano; per chi ha presente la geografia della Palestina, tuttavia, i due dati non sono inconciliabili: in realtà il Giordano, prima di sfociare nel Mar Morto scorre in un paesaggio desertico. Ed è qui che Giovanni amministra il battesimo a quanti accorrono a lui. Quello che invece necessita di una qualche giustificazione è come mai Giovanni si trovi nel deserto. Si tratta di un dettaglio che pone molti problemi. È noto che egli è figlio di Zaccaria il quale riceve l’annuncio della sua nascita nel corso del suo servizio all’interno del tempio (Lc 1, 11-20). Poiché il sacerdozio era ereditario, ci saremmo aspettati che il figlio gli fosse subentrato nel servizio; trovarlo nel deserto suscita interrogativi che gli studiosi hanno cercato di risolvere. Poiché a una decina di chilometri dal luogo in cui Giovanni battezzava si trovava, in pieno deserto di Giuda, una comunità di tipo monastico, nota oggi come la comunità di Qumran, si è ipotizzato che egli vi abbia trascorso parte della sua giovinezza.

Anche se l’ipotesi, sostenuta da autorevoli studiosi, è suggestiva, allo stato attuale della documentazione è tutta da dimostrare. Certamente è fuor di dubbio che il deserto deve essere stato un fattore determinante nella maturazione spirituale del precursore di Gesù. Ma vediamo il nucleo della sua predicazione riportata da tutti gli evangelisti sia pure con rilevanti varianti (Mt 3, 1-12; Mc 1, 1-8; Lc 3, 3-18; Gv 1, 19-23); il brano citato in precedenza è quello di Marco perché probabilmente rappresenta la forma più antica da cui hanno preso gli altri.

La predicazione di Giovanni. Sostanzialmente la predicazione di Giovanni è ritenuta l’adempimento di una profezia di Isaia: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio” (Is 40, 3). Come appare evidente, mentre nei vangeli l’espressione “nel deserto” definisce l’ambito geografico in cui Giovanni svolge la sua missione (voce di uno che grida nel deserto), nel testo profetico essa è parte integrante del messaggio: “Nel deserto preparate…”.

Può apparire la solita complicazione prodotta dagli esegeti; in realtà ci troviamo di fronte ad un aspetto importante: per Isaia nel deserto il popolo eletto, che sta per essere liberato dall’esilio in Babilonia e sente imminente il rientro in patria, deve sperimentare un nuovo esodo. La consolazione che annuncia il profeta (“consolate, consolate, il mio popolo”, Is 40, 1) si realizza proprio attraverso il viaggio nel deserto. In altre parole, come l’Israele dell’esodo attraverso il deserto era arrivato alla terra promessa, così il nuovo Israele dopo l’esilio, attraverso il deserto, rientra in possesso della terra dalla quale Dio l’aveva allontanato. Per Giovanni, invece, il deserto è il luogo in cui si attua la conversione che viene esternata e riassunta nel rito del battesimo, mediante il quale il fedele rinuncia alla vita passata e ne incomincia una nuova.

Giovanni il nuovo Elia. La figura del Battista come descritta dal NT (“Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico, Mc 1, 6) è configurata su quella dei profeti e specialmente su quella di Elia (2Re 1, 8). Per questi personaggi il deserto svolse una funzione essenziale: basti ricordare che Amos di Tekoa riceve la vocazione in pieno deserto del Negev ed Elia, per recuperare le energie spirituali messe a dura prova dalle persecuzioni di Gezabele (1Re 19, 1-8), si rifugia nel deserto per incontrare il Signore. Solo dopo un ristoratore bagno di spiritualità ritornerà, temprato, per continuare la missione che Dio gli ha affidato (1Re 19, 15-19).

La permanenza di Giovanni nel deserto provoca un miracolo sorprendente: non è lui che deve spostarsi per convertire le persone, ma sono queste che si recano da lui: “Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati”, Mc 1, 5. Probabilmente, come capita spesso nei fenomeni di religiosità popolare, il rito esteriore diventava preponderante, a scapito dell’autenticità e dell’interiorità. A costoro Giovanni riserva invettive roventi che trovano la sintesi nell’espressione “razza di vipere” rivolta ai farisei e ai sadducei, ossia a coloro che si consideravano la crema della società! Molti, invece, erano veramente pentiti e, pieni di buona volontà, gli chiedevano: “Che cosa possiamo fare” (Lc 3,10)? Ecco la ricetta maturata da questo rude predicatore formatosi nel silenzio e nella vita dura del deserto: chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; a quelli che svolgevano mestieri nei quali abusare dei deboli era quasi la norma, come i pubblicani o i soldati, ordina di accontentarsi degli stipendi, rinunciando ad arrotondare le entrate con le bustarelle (Lc 3,12-13). Se l’esperienza del deserto è autentica, immancabilmente cambia la vita! Fu proprio la scoperta di questa sorgente genuina di spiritualità che portò Giovanni a schierarsi in modo critico contro la religiosità ufficiale e il potere politico. Un coraggio che gli costerà la vita.

Gesù e il deserto. La funzione del deserto nella formazione spirituale di Gesù è più circoscritta: Gesù vive la vita normale tra la gente, tanto che i denigratori lo definiscono un “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11, 19), in antitesi con lo stile austero di Giovanni.

Certamente il fatto che Gesù sia vissuto in Galilea, la parte più fertile e coltivata della Palestina, ha fatto in modo che la sua frequentazione del deserto sia piuttosto rara: se si escludono i quaranta giorni di deserto durante i quali viene tentato da Satana, Gesù non vivrà altre esperienze analoghe. I vangeli alludono spesso a Gesù che si ritira a pregare da solo, ma questo lo fa in luoghi solitari (Mc 1, 35; Mt 14, 13; Gv 6, 16). Insomma quando Gesù vuole trovare un posto che favorisca la sua conversazione con il Padre, si crea il deserto: allontanandosi dal frastuono della gente! Ma questo non significa che la sua permanenza nel deserto sia stata insignificante: essa assume un valore teologico fondamentale in quanto è nel deserto che egli sceglie se realizzare il messianismo trionfante, consolidato dalla tradizione, dalle attese dei suoi contemporanei e propostogli dal diavolo (Mt 4, 3-10), oppure quello del messia sofferente, modellato sul servo di Isaia 53 e che Gesù accetta come volontà del Padre.

È una scelta sofferta in quanto egli è cosciente che questa decisione gli avrebbe procurato incomprensioni e solitudine. Insomma, Gesù nel momento del discernimento si ritira nel deserto, ma realizza il piano di Dio in mezzo alla gente! È un insegnamento di grande attualità: le pause nel deserto sono indispensabili, anche se non è essenziale andare nel Sahara; è possibile creare il deserto anche a casa propria, se riusciamo ad eliminare il chiasso che ciascuno si porta dentro. Purtroppo quando la folla è nella nostra interiorità è inutile cambiare luogo: siamo come il malato che cerca di guarire cambiando letto!

La comunità di Qumran. Trattando il tema del deserto non si può tralasciare di ricordare la straordinaria esperienza spirituale che i testi di Qumran ci hanno permesso di conoscere. Come accennato a proposito di Giovanni Battista, a pochi chilometri da dove egli predicava viveva una comunità composta di qualche centinaio di persone, le quali praticavano sia il celibato che la comunione dei beni. Naturalmente tutto questo prima che sorgesse il monachesimo cristiano che, come si sa, si sviluppò dopo il terzo-quarto secolo. La Regola della comunità, ritrovata tra i rotoli di pergamena, ci ha illuminato sulla spiritualità che animava i membri: essi vivevano nella stretta osservanza della legge mosaica, ma con una vita ascetica di livello così elevato da poter essere paragonata a quella dei monaci del cristianesimo primitivo. I punti di contatto con il NT sono numerosi; oltre alla comunione dei beni, entrambe le comunità erano coscienti di vivere una nuova alleanza; la comunità di Qumran annualmente ne celebrava il rinnovamento con una cerimonia suggestiva a cui partecipavano attivamente tutti i membri. In polemica con il tempio di Gerusalemme, che i sacerdoti consideravano la casa di Dio, a Qumran ogni membro della congregazione si riteneva tempio di Dio e la comunità, come entità religiosa, fungeva da “Santo dei Santi” e “tempio perfetto e vero” (Regola della comunità VIII). Questo dato richiama un elemento fondamentale della teologia paolina che considerava i fedeli “tempio di Dio” (1Corinzi 3, 16). Uno degli usi caratteristici del cristianesimo primitivo di Gerusalemme consisteva nel consumare i pasti in comune; tale pratica, permeata da un clima di intensa spiritualità, sarà trasformata nella nostra celebrazione eucaristica (“spezzare il pane”, Atti 2, 42). A Qumran c’era ugualmente l’uso di consumare i pasti in comune, ma quello che sorprende è che il cibo era costituito dal pane e dal vino: “Quando avranno apparecchiato la tavola per mangiare o bere vino, il sacerdote stenderà la mano per primo per benedire la primizia del pane e del vino” (Regola della comunità VI); non solo, il cibo veniva consumato in silenzio e per l’occasione i membri indossavano vesti speciali (Guerra Giudaica II, 8). Insomma, più che un pasto sembra una liturgia. Purtroppo questa comunità scomparirà dalla storia, spazzata via dalla guerra combattuta da Roma contro Gerusalemme (70 d. C.). Ma i semi di speranza contenuti nella loro spiritualità confluiranno nel cristianesimo, che li diffonderà in tutto il mondo. Naturalmente ho accennato solo a qualche elemento di affinità tra cristianesimo delle origini e comunità di Qumran; molti altri sono stati assorbiti, inconsciamente, dal patrimonio religioso comune a tutti coloro che, animati dallo Spirito, cercano Dio con tutto il cuore.

Conclusione

A prima vista, il deserto non offre certo l’ambiente ideale per far crescere i semi! Ma quando il seminatore è Dio anche il deserto si trasforma in un giardino! Oggi la terra di Israele sta offrendo uno spettacolo impressionante: il deserto del Negev è tappezzato di verde! È importante vedere il deserto con gli occhi di Dio: allora sono ancora possibili i miracoli.

L’importante, come ci dice Papa Francesco, è che nessuno ci rubi la speranza di trasformare il mondo!

Giovanni Deiana, biblista

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