Famiglia porta stretta

APPROFONDIMENTI di Alberto Hermanin

In occasione della Giornata della Famiglia celebrata a Pescara il 21 aprile 2013 il dott. Alberto Hermanin ha proposto un intervento di cui riportiamo il testo – in stile colloquiale – rivisto dall’Autore.

Riflessione sul capitolo 7 del Vangelo di Matteo alla luce della situazione dell’istituto familiare oggi.

 

Prima di tutto mi sembra opportuno dire una cosa che già sapete, e cioè che le cose che vi dirò non sono una “relazione” ma solo lo spunto per una chiacchierata; direi anche una chiacchierata fra incompetenti, perché almeno io certo non mi sento di avere competenze teologiche o di altre scienze in nessuna misura.

 

Il Signore Iddio però ci ha dato la ragione, come si dice, perché la usassimo, ciascuno con le possibilità che ha; in questo spirito possiamo cominciare con il richiamo al capitolo 7 del Vangelo di Matteo, ultima parte del discorso della montagna, e in particolare sui versetti 13 e 14.

 

Ora, mi è sembrato opportuno dare a questa chiacchierata di oggi, in cui si celebra questa simpatica usanza della festa della famiglia, il titolo che richiama la porta stretta. Famiglia porta stretta.

 

Intanto nei versetti c’è una generica indicazione del Maestro a far uso sempre della porta stretta, rafforzata dalla constatazione che l’altra porta è larga, è comoda. La porta stretta è preferibile perché porta “alla vita”, l’altra porta alla “perdizione”.

 

Qui si parla di vita: la porta stretta è quella certamente della salvezza, quella larga è quella della perdizione in termini escatologici.

 

Ma sarebbe un errore fermarsi all’interpretazione che fa capo ai novissimi. La via stretta e il suo contrario salvano o dannano la vita anche qui in questo mondo transeunte e limitato. La sequela della via stretta per usare un termine poetico, fa fiorire la nostra vita anche qui. Essa porta alla vita, cioè alla pienezza della vita in tutti i sensi, in tutti i modi.

 

Ora veniamo al nostro assunto “famiglia porta stretta”. Esso è suggerito da considerazioni di natura sociologica per le quali, come sappiamo, la famiglia cosiddetta tradizionale appare un istituto in grave crisi. Consideriamo qualche dato interessante:

 

• cala il numero dei matrimoni in generale

• calano i matrimoni religiosi rispetto a quelli civili

• nelle regioni del Nord Italia il matrimonio civile nel 2011 ha operato il sorpasso e prevale con il 51,7% rispetto al 48,3% di quello celebrato in chiesa

• in Italia ci si sposa comunque sempre meno

• aumentano le separazioni

• la lieve flessione del numero dei divorzi che l’annuario Istat riporta per l’anno 2011 è attribuibile più a problemi di natura tecnica che non ad una tendenza a rinunciare allo scioglimento del vincolo

• aumentano, anche se sono difficili da censire, le cosiddette coppie di fatto, le convivenze non tutte e necessariamente prematrimoniali.

 

Oltre il dato statistico sappiamo, perché viviamo qui ed ora, e non in torri d’avorio, quale sia lo spirito pubblico prevalente.

 

Apriamo internet o un qualsiasi giornale cosiddetto femminile: pubblicazioni che la dicono lunga sulle tendenze generali molto più di tante statistiche.

 

Su un sito (Style.it) molto frequentato, si dà notizia dei dati Istat che vi ho letto, e si chiedono commenti. Il primo commento riguarda il sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi nel Nord Italia: “Era ora. Mi fa molto piacere.”

 

• Sullo stesso sito, al capitolo “matrimoni” si trovano rubriche e inchieste su questi argomenti:

• Abito

• Accessori e fedi

• Trucco e acconciature

• Lista nozze

• Wedding day

• Luna di miele

• Album di nozze

• Marito, le dieci mosse per individuare quello giusto

• Cosa indossare la prima notte di nozze

• Accessori per lo sposo (e non per tutti)

• “Perché”, ma soprattutto “quando” i maschi impazziscono.

 

Si potrebbe continuare, credo che ci siamo capiti, ma permettetemi di portare a vostra conoscenza un altro aspetto di questa “matrimonialità italiana”.

 

Il 17% dei matrimoni in Italia ha un costo superiore ai 30mila euro; le spese più importanti sono il ricevimento, che in media può costare dai 5.000 ai 10.000 euro, e l’abito della sposa, per il quale bisogna preventivare una spesa tra i 1.500 e i 7mila euro. Per affrontare questo ingente onere, non si bada a spese. Una ricerca del portale Prestiti.it dimostra che le coppie in procinto di sposarsi richiedono prestiti – finalizzati alla copertura di queste spese – che oscillano in media attorno ai 16mila euro. La media nazionale di questo tipo di prestiti è del 2% sul totale complessivo di tutti i prestiti. Sono dati dell’anno 2011, forse la crisi li avrà leggermente modificati ma non certo di molto.

I dati di questa ricerca sono interessanti: perso il suo carattere di indispensabilità sociale per poter andare a convivere, il matrimonio conserva la sua valenza di rito di passaggio onerato da irrinunciabili cerimonie costose, per le quali si arriva persino ad indebitarsi: una nuova famiglia che già prima di nascere è in deficit.

È del resto esperienza comune l’esistenza di coppie conviventi, magari con figli, che giustificano apertamente le mancate nozze non con argomenti di rifiuto della istituzione matrimoniale, ma semplicemente adducendo il costo eccessivo della “operazione matrimonio”.

Del tutto ignare anche della possibilità almeno teorica di convolare senza bisogno di spendere alcunché.

La fotografia di questa realtà mostra una singolare convivenza, nel tessuto sociale italiano, di elementi pesantemente arcaici – così può certamente definirsi la convinzione che non ci si possa sposare senza il pesante e costoso apparato rituale, al quale chi si sposa è disposto a sacrificare molto indebitandosi – con altri decisamente postmoderni. Coppie di persone anche di modesta formazione culturale a tutt’oggi considererebbero una “vergogna” inaccettabile sposarsi senza banchetti e abiti costosi, ma non sentono affatto come vergognosa la scelta di convivere, anche con prole. Non si ripete, per motivi di ostilità all’istituzione – fenomeno questo certamente vasto – ma solamente per motivi schiettamente economici.

 

 

Evidente appare, sulla base anche solo di queste considerazioni, la massiccia “assenza”, nel sentire collettivo, di qualsiasi valenza attribuita al matrimonio che non sia quella collegata ai riti di contorno. E certo non stupisce che l’aspetto “sostanziale” del matrimonio, l’unione carnale di uomo e donna, non venga neppure considerato, vista la conclamata e oramai pienamente raggiunta libertà di convivenza e di scambio sessuale in tutti i segmenti sociali.

 

Quanto questa realtà possa dirci come cristiani mi pare superfluo evidenziare: la ben poca “cristianizzazione interiore” della società popolare tante volte entusiasticamente ricordata da vari nostalgici, si è sciolta come neve al sole al primo soffio della modernizzazione dei costumi, salvo appunto la poco consolante sopravvivenza tenace di riti collaterali assai poco cristiani. Il distacco assoluto – oramai apertamente consumato – fra l’essenza del matrimonio e le forme celebrative di esso.

 

Non mancano poi le note comiche: come accade quando, finalmente decisi al grande passo, maturi “fidanzati” conviventi da anni si presentano – esperienze dirette di un catechista – ai corsi di catechesi prematrimoniale candidi come la neve, senza neppure il sospetto di non essere modelli di etica sessuale. Anzi, al contrario, arrivano e rivolgono critiche senza misericordia all’insegnamento ecclesiale, accusato di non modernizzarsi, questo sì un peccato imperdonabile.

 

Quindi, riassumendo:

• la costatazione un po’ amara che questa nostra società italiana che passava per cristianizzata totalmente lo è e lo era del tutto superficialmente

• l’abbandono massiccio e apparentemente senza traumi di comportamenti secolari

• l’aperta svalutazione del religioso in ambito familiare (era ora che i matrimoni civili fossero di più)

• l’aumento della pratica di convivenze alternative e la pretesa per esse della stessa protezione giuridica accordata al matrimonio.

 

Ci capiamo. Siamo ormai trapassati da una società ufficialmente cristiana ad una apertamente non cristiana e sempre più spesso non neutrale ma ostile al cristianesimo. Pensiamo non solo agli eterni valori non negoziabili (che sarebbero quelli riguardanti la biologia, l’aborto, la fecondazione assistita, le nozze gay, etc) ma anche alla crisi dei modelli di convivenza, e infine alla crisi dei modelli educativi.

 

Due parole su questi aspetti, senza dilungarsi: le convivenze anche matrimoniali sono concepite in termini totalmente contrattuali: qualsiasi accenno a vocazioni alternative legate alla diversità sessuale dei conviventi viene rigettato come residuato della più grande ingiustizia della storia, cioè quella perpetrata per secoli contro la donna.

E questo avviene a dispetto, si direbbe, dell’evidenza del fatto che per quanto la donna possa fare tutto ciò che fa un uomo e questo possa anzi debba fare altrettanto, ugualmente mai sarà possibile che un uomo partorisca e abbia, in conseguenza, il rapporto particolarissimo e decisivo per entrambi, che una donna ha con un figlio.

 

Ne consegue, e lo vediamo senza sforzo nella vita di ogni giorno, la crisi del modello educativo: figli “terrorizzanti” che comandano in casa, nessuna autorità esercitata su di essi, nevrosi dei genitori, e soprattutto del padre, e finale nevrosi del pargolo in età adolescenziale. Crisi del modello educativo, crisi della istituzione matrimoniale, quanto altro volete.

 

Ci porterebbe fuori tema cercare di comprendere le ragioni di questa deriva: diciamo che essa c’è, ed è sicuramente incoraggiata da una sorta di ideologia che si autonomina impropriamente liberale, volta a destrutturare le relazioni della persona umana come singola e come appartenente ad una comunità ritenendo la libertà sinonimo di “non scelta”, di non impegno, di non responsabilità, di non giudizio. Il tutto in funzione del sistema produttivo di beni di consumo inutili. Su questo non ci dilunghiamo.

 

Oggi però è un giorno di festa – la festa della famiglia! – e quindi non ci siamo visti per piangerci addosso o per malinconiche considerazioni sulla tristezza dei tempi.

 

Il cristianesimo in verità è sempre stato in polemica con “i tempi”, anche in condizioni totalmente diverse dalle nostre. Io penso per esempio al fenomeno del monachesimo, rifiuto del mondo come era, che ha avuto una così grande importanza nella storia della Chiesa. Eppure erano tempi molto diversi dagli attuali. Noi siamo nel mondo ma non siamo del mondo, secondo il Vangelo di Giovanni.

 

Ciò che allora contraddistingue la nostra polemica con il mondo non è l’astio verso di esso: S. Antonio va nel deserto non “contro” ma “per” il mondo, al quale serve la testimonianza di un modo nuovo e diverso di esserci. Ecco, il ricordo di questi primi monaci mi sembra simpatico e pertinente riferirlo proprio alla famiglia cristiana oggi.

 

Gli sposi cristiani oggi come non mai sono chiamati a testimoniare di essere un modo diverso di esserci.

Di esserci, dove?

Proviamo a fare un elenco dei “luoghi” ricoperti dagli sposi cristiani.

 

1) Esserci, in primo luogo, nell’esercizio della sessualità, sfatando interessate leggende sul mancato appagamento dei credenti, che “spengono la luce e non lo fan per piacer loro ma per dar dei figli a Dio”. In realtà lo fanno celebrando Dio nel dono di sé all’altro, in una pienezza anche psicologica che realizza in pieno la natura umana di “essere in relazione”, sul piano fisico quanto su quello psicologico.

Che ci piaccia o no, viviamo un’epoca profondamente influenzata dalla “felicità sessuale”, che viene ritenuta di primaria importanza per la realizzazione della propria personalità, il che non è poi un errore: ora questo territorio di missione non deve essere sguarnito dai testimoni del Risorto, quasi che noi dovessimo occuparci solo di spirito e non anche di carne, quasi che Cristo fosse una idea, e non un uomo reale, realmente risorto nel suo corpo.

 

È la pienezza dell’amore coniugale santificato da Cristo che si manifesta nella castità coniugale: si è in verità troppo pieni e per questo ci si astiene dall’esercizio di una sessualità disordinata o impropria. Non perché “è vietato”. Aggiungerei, ciò che è “vietato” prima di essere tale è, molto semplicemente, stolto, sbagliato.

 

2) Esserci nella testimonianza antropologica: manifestando nella vita sociale di ogni tipo la propria appartenenza, la propria vocazione, il proprio cammino verso Dio nell’altro e con l’altro.

 

Non viviamo tempi favorevoli alla retorica positiva della famiglia: arte, cultura, immaginario collettivo sono dominati, al contrario, dall’idea di una realizzazione di sé che passa per la cura maniacale del proprio corpo prima e del proprio interesse esclusivo poi. La stessa idea del bello – non ci addentreremo in questo tema pure affascinante – è largamente uniformata a modelli chiaramente solipsistici. Pensiamo per esempio alla pubblicità.

 

Il matrimonio poi è vissuto con malcelata ironia da moltissimi di quelli stessi che lo contraggono: è di fondo il rifiuto filosofico del “vincolo”, che di per sé sarebbe direi ontologicamente una limitazione della personalità, e non un suo sviluppo.

 

Qui è il punto: noi sappiamo al contrario che il vincolo è seguire Cristo, imitare il suo farsi “obbediente fino alla morte”, e che questo è il cammino che porta alla Pasqua, cioè alla pienezza della realizzazione dell’uomo.

 

Una testimonianza antropologica non è quindi una cosa complessa, per la quale occorra chissà quale preparazione culturale: sarà semplicemente il manifestare con evidenza che la scelta del vincolo è la scelta della libertà, della piena realizzazione: nessuno è più libero e realizzato di Cristo, in croce.

 

Come? A me pare che ogni famiglia, ogni coppia di sposi sia in grado dire “come”.

Tutti conosciamo i nostri mondi, viviamo il nostro destino, e basta tenere gli occhi aperti per vedere quanto c’è bisogno di testimoniare la nostra speranza: io credo che sia abbastanza percepibile un po’ da tutti, in tutti gli ambiti, dalla scuola al lavoro ai social network, all’arte, insomma a tutto.

Ovunque, insomma, siamo pronti sempre a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi.

 

3) Esserci – come non dirlo parlando di famiglia e famiglia cristiana per di più – nella testimonianza di un progetto educativo “altro” dal prevalente. La famiglia cristiana fondata sulla roccia di Cristo sa che esiste un mondo intero sempre meno esplorato e conosciuto, che è quello dei doveri: il cui esercizio rende non meno ma più liberi, più autenticamente umani, più discepoli di Nostro Signore.

Quindi in primo luogo doveri educativi verso i figli, che non si limitano al mantenimento in vita: i figli hanno diritto (e dove c’è un diritto non può non esserci un dovere) ad essere educati: e quindi quando necessario corretti e indirizzati, non lasciati nell’equivoco vuoto di autorità che genera solo nevrosi e ricerca ossessiva di conferme che si ritrovano in troppi ragazzini isterici, e che nell’adolescenza poi peggiorano.

 

4) Viviamo poi nel XXI secolo: la durata della vita si è smisuratamente allungata creando anche qualche problema con i genitori che non si decidono a partire per il grande viaggio. Testimoniamo anche qui il nostro essere nel mondo ma non del mondo riducendo al minimo le deleghe di cura dei vecchi. Il nostro modello sia Rut, la quale, pagana, rifiuta di abbandonare la suocera rimasta senza figli e le dice “la tua gente è la mia gente”. Ecco, direi l’opposto di una visione contrattuale, le cui basi si gettano per tempo nelle famiglie cristiane esercitandosi ed educandosi all’amore che espande la propria personalità. Amore per i suoceri? Ma sì, anche per i suoceri.

 

5) Esserci, vorrei aggiungere da ultimo, – ma si potrebbe continuare, anzi sarebbe un bell’esercizio da suggerire alle coppie cristiane quello di elencare anche altri ambiti – esserci nella letizia: che espressione desueta è mai questa, ma non ne trovo di meglio: letizia di esserci dove che sia, letizia di esserci come marito e moglie. Penso che ben pochi strumenti di testimonianza cristiana siano più efficaci e positivi di questa letizia, del sorridere: specie in questo mondo che talvolta sembra trucemente torvo, schiacciato dai rancori reciproci determinati da un errato umanesimo.

 

Bene, e tutto ciò va fatto – e forse in qualche misura è fatto – qui e oggi, non chissà quando e nell’esercizio di chissà quale chiamata specialissima ad assistere i lebbrosi in Africa: qui e ora, e abbiamo detto quanto il mondo sia preparato ad accoglierlo; ce n’è abbastanza per parlare di porta stretta, di porta che conduce alla vita (eterna, certo: ma intanto anche vita di pienezza qui in terra, ricca in misura del nostro sì alla vocazione sponsale e familiare).

 

Ai nostri preti, che Dio li assista, piace tanto cambiare e rigirare la liturgia, compresa quella del sacramento del matrimonio: mi piacerebbe che alla prossima giravolta vi fosse inserito il versetto del Vangelo: “vi mando come pecore fra i lupi”. I lupi peraltro sono belle bestie, a me sono simpatici, non siamo forse in Abruzzo?

 

E in ogni caso, venga la pioggia, esondino i fiumi, soffino i venti: la nostra casa è fondata sulla Roccia.

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