Don Giacinto Bianchi

(1835-1914)

«Giacinto Bianchi è stato un cristiano inquieto: fedele e sicuro nella sua vocazione e nello stesso tempo continuamente incalzato dall’urgenza di Cristo. Ha vissuto il sacerdozio non come una meta raggiunta, un ministero da esercitare, ma come un costante punto di partenza per rinnovare ogni giorno l’annuncio del Vangelo facendosi «tutto a tutti» (1Cor 9, 22) secondo i talenti ricevuti. È andato ben oltre la presenza assidua all’altare e al confessionale, poiché ha sperimentato gli aspetti più qualificanti della vita di un sacerdote. In oltre cinquanta anni di generose risposte, ha svolto il servizio pastorale fra la gente dei paesi, si è impegnato in una comunità sacerdotale, ha predicato instancabilmente, ha promosso l’educazione cristiana, ha viaggiato come missionario, ha fondato e guidato un istituto religioso, ha tentato di costruire una chiesa» (card. Ivan Dias).

Carlo Giacinto Bianchi nacque il 15 agosto 1835 a Villa Pasquali, piccolo borgo della Bassa mantovana in diocesi di Cremona, dove anche oggi le case circondate dai vasti campi coltivati sono dominate dalla imponente chiesa parrocchiale settecentesca dedicata a Sant’Antonio Abate.

Primogenito di numerosa famiglia contadina, Giacinto sentì presto la vocazione missionaria. Ordinato il 29 maggio 1858, iniziò il ministero sacerdotale in piccoli centri rurali limitrofi a Villa Pasquali. Nel 1860 venne trasferito a Scandolara Ravara; qui 1864 fondò la «Casa di lavoro», che accoglieva donne nubili desiderose di vivere e lavorare in forma comunitaria. Don Giacinto non voleva per loro una fisionomia confessionale, ma l’opera si attirò ugualmente le ostilità degli anticlericali, molto attivi nella zona, che la faranno chiudere all’inizio del 1865 ottenendo anche l’allontanamento dell’intraprendente sacerdote.

Don Giacinto si trasferì a Genova, dove fu accolto dal priore Giuseppe Frassinetti (1804-1868), maestro di teologia e morale, uno dei più insigni sacerdoti del suo tempo; in breve divenne suo stretto collaboratore. Fu un periodo di intensa formazione culturale e spirituale, anche nella prospettiva missionaria, particolarmente viva nella Chiesa genovese. In quest’epoca intraprese il ministero della parola, che divenne impegno qualificante di tutta la sua vita. Sentendolo predicare, la nobile genovese Eugenia Ravasco (1845-1900) intuì la chiamata soprannaturale e si dedicò ad opere di educazione cristiana attuate attraverso le Figlie dei Sacri Cuori da lei fondate; è stata beatificata nel 2003.

Dopo la morte di Frassinetti, don Giacinto restò a Genova, che divenne in seguito la sua seconda patria. Da qui sarebbe partito per predicare su richiesta di molte diocesi dove il suo nome era apprezzato; per diversi anni durante i mesi estivi si recò anche in Francia, Svizzera per assistere gli emigranti italiani.

Nel 1868 andò in Palestina: da questo viaggio nacquero in lui un singolare amore per la terra di Gesù e una tenera devozione a Maria.

Dal 1870 al 1872 fu accolto tra i novizi della Compagnia di Gesù: entrò a Monaco Principato e fu poi inviato a Chieri, in Piemonte. A questo periodo risale il suo primo contatto con Pigna, piccolo centro dell’entroterra ligure in diocesi di Ventimiglia dove si recò a predicare una missione. Nonostante le doti umane e spirituali, non fu ammesso fra i gesuiti poiché giudicato cagionevole di salute.

Il vescovo di Ventimiglia, su richiesta della popolazione, lo richiamò a Pigna, che diverrà determinante nella sua vita di sacerdote e di fondatore. Qui iniziò un’intensa attività pastorale: eresse la Pia Unione delle Figlie di Maria e guidò diverse giovani, restaurò la chiesa, promosse numerose confraternite, costruì un oratorio dedicato alla Madonna di Lourdes.

Continuava però a mantenere desto il suo interesse per le missioni, tanto che nel 1875 seppe che il canonico genovese Antonio Belloni aveva lanciato un appello per l’orfanotrofio arabo-cattolico da lui fondato a Betlemme: era in difficoltà economiche e cercava aiuto per la cucina e il guardaroba. In un’omelia don Giacinto rilanciò l’appello alle giovani di Pigna invitandole ad un impegno molto generoso: la partenza per la Palestina. Con sua sorpresa la proposta fu subito accolta da Caterina Orengo, cui in breve si unirono altre quattro Figlie di Maria. Dopo un periodo di vita comune, partirono nell’agosto 1876 e costituirono il primo nucleo delle Figlie di Maria Missionarie. Vissero il loro carisma nello spirito e nello stile della Vergine, fedeli alla preghiera e al servizio nell’opera educativa. Costrette a rientrare nel 1892, trovarono in don Giacinto un padre sollecito e generoso, capace di consolidare il nascente istituto con una fioritura di vocazioni e di espanderlo fino in Sicilia. Nel frattempo si era stabilito definitivamente a Genova, costretto da false accuse ad abbandonare Pigna, ed aveva ripreso la sua attività di predicatore. Nel 1890 Propaganda Fide lo nominò Missionario apostolico.

Per le Figlie di Maria Missionarie nel 1901 riscattò la casa paterna che divenne sede del noviziato. Qui si ritirò nel 1911, logorato dai viaggi, dai disagi, dalla fatica. Proprio a Villa Pasquali iniziò ad erigere un oratorio a Sant’Ermelinda, vergine belga del IV secolo eletta a patrona delle Figlie di Maria Missionarie, ma una benefattrice non mantenne le promesse e don Giacinto fu costretto ad abbandonare questo suo ultimo progetto.

L’11 febbraio 1914, festa della Madonna di Lourdes, don Giacinto muore. Era vissuto povero e nella provvisorietà, fiducioso in Dio, pronto a consolare e sollevare il prossimo.

Presto sorse la fama di santità e all’inizio del 1915 fu stampata una prima biografia. Le difficoltà dei tempi ritardarono al 1949 l’apertura del processo diocesano, terminato nel 1962. Il suo corpo fu traslato a Roma nel 1974. Nel 1993 fu presentata la Positio super virtutibus alla Congregazione delle Cause dei Santi. Il 6 dicembre 2008 Benedetto XVI ha promulgato la venerabilità di don Giacinto Bianchi.

Dai suoi scritti

Non credo esagerare a dirvi che lo zelo è l’immolazione di noi a Dio per le anime, perché è l’amor di Gesù passato nell’anime nostre per il prossimo, quindi sta a noi vivere di sacrifici, di lacrime, di gioie pelle anime – e questo è lo spirito dei missionari.

Al superbo razionalismo che mette nella stessa bilancia la ragione e la rivelazione, che deride i misteri augusti e compiange le nostre superstizioni, noi dobbiamo rispondere con una parola energica, piena di fede, senza temere. All’egoismo che ha serrati i cuori e che non cerca che l’interesse proprio, che non ha un sentimento di compassione vera per gli afflitti e disgraziati, noi opporremo la carità ardente, quella carità che parla poco e opera molto, che si dà all’ultimo, al più piccolo e povero dei fratelli, che largisce co’ suoi beni, coll’anima sua, colla sua vita.

Suor Antonietta Papa - Figlie di Maria Missionarie

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