Uno più uno: la santità è contagiosa

L’orizzonte della santità cristiana alla luce dell’Esortazione apostolica "Gaudete et Exsultate" di Papa Francesco - Seconda parte (la prima era stata pubblicata lo scorso 16 marzo 2019) di una Conferenza organizzata dal Movimento Pro Sanctitate, tenuta a Noto da S.E. Mons. ROSARIO GISANA, Vescovo di Piazza Armerina



La chiamata alla santità è dunque universale, non soltanto perché essa coinvolge la nostra creaturalità, per cui si può dire che santi sono tutte le persone buone e docili anche delle altre religioni, ma riguarda altresì coloro che in modo silente e quotidiano conducono la propria vita nell’affidamento a Dio. Ciò che infatti stabilisce la condizione di una vita santa è la capacità di sapersi affidare all’agire misericordioso di Dio, a lasciare, come afferma 1Pt 5, 6-7, che sia Dio ad elevare la dignità della nostra vita, dopo aver compiuto almeno una duplice opera di affidamento: l’accettazione fiduciosa delle nostre umiliazioni e la reposizione in lui delle tante preoccupazioni che ci affliggono. Non c’è dubbio che la via della santità è l’umiltà; ma essa, prendendo le mosse da una pronta arrendevolezza, si struttura, si forma e si matura dentro quei processi di scoramento o fallimento che sono le umiliazioni. Lo sottolinea con forza Papa Francesco nell’Esortazione al n. 118: «L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità». Occorre allora intraprendere questa via, che è in definitiva quella discepolare. La manifestazione, per antonomasia, di questo processo di umiliazione, redentivo e santificante, lo si vede in Gesù, nella sua vita terrena ma anche nella decisione di incarnarsi per la nostra salvezza, che è già un atto di umiliazione.
L’incarnazione del Figlio di Dio infatti è l’atto di umiliazione più sconvolgente della storia, tenendo conto delle parole esemplificative di Paolo: Egli «pur essendo di natura divina non considerò un possesso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso […], umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». (Fil 2, 6-7). L’umiltà di Gesù nasce quindi da una sua scelta libera, dall’accettazione delle sue umiliazioni, affinché si stabilisca definitivamente l’incontro del mondo con Dio. A questo infatti tende l’umiltà che è preambolo di santità. Se il santo è uno che ha incontrato Dio e vive di questa relazione, egli non può non aver intrapreso questa via salutare, tratteggiata da Gesù e intesa così dall’autore della lettera agli Ebrei: «Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Cristo, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne» (Eb 10, 20). Il termine sarx (carne), per l’autore, sta ad indicare la vita terrena di Gesù, ove egli ha sperimentato «l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9).
La perfezione di Gesù cui allude l’autore è chiaramente la santità, che ha fondamento sulle sue umiliazioni, cioè sulle variegate ubbidienze alla volontà di Dio, intrecciate con le contraddizioni della vita terrena. Coloro che sanno recepire quest’intreccio e quindi si pongono sulla via maestra, tratteggiata da Gesù «con forti grida e lacrime» (Eb 5, 7), di fatto cooperano alla salvezza, oltre a detenere le modalità per attuarla. Il termine soterìa (salvezza) evoca probabilmente il processo di santificazione del mondo già in atto nella storia, a partire ovviamente dall’azione santificante dello Spirito di Gesù, ma a prolungamento – forse sarebbe questo il senso dell’aggettivo aiònios (eterno) accostato alla salvezza – si attua nella vita buona e ubbidiente dei santi. Il loro esempio infatti è necessario: sollecita il mondo a scoprire la via dell’incontro con Dio, la quale passa sempre attraverso le umiliazioni. Per capire poi cosa s’intende per umiliazione, basta prendere le mosse dall’esempio di colei che è stata corifea dei santi nel discepolato cristiano. La madre di Gesù infatti, nel magnificare l’opera misericordiosa di Dio nella sua vita, coglie il motivo perché egli ha rivolto, proprio a lei, il suo sguardo misericordioso: «Ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1, 48).
L’uso dell’accezione nel canto della Madonna è sorprendente. Qui non si tratta di umiltà, come virtù già acquisita, ma di umiliazione (tapèinosis), cioè di prontezza a collocarsi lei, la serva del Signore, liberamente e volutamente nella volontà di Dio, intraprendendo così quella via dell’ubbidienza che ella imparerà dal Figlio di Dio. E la volontà divina ha significato per la Madonna non tanto la rinuncia alla maternità con Giuseppe, quanto a fare di questa rinuncia motivo di lode e ringraziamento per l’azione redentiva di Dio. Questa è lungimiranza che appartiene ad una vita santificata. Non è facile compiere tale trasposizione a partire dalle nostre umiliazioni, sia perché esse generano sofferenza, sia perché quasi mai hanno valenza martiriale, sia perché turbano la linearità della nostra vita quotidiana. È significativo, a tal proposito, quello che riferisce ancora Papa Francesco nell’Esortazione al n. 119: «Non mi riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore». Quello che conta, per far crescere in noi la virtù dell’umiltà, è la disposizione interiore, quel modo naturale e fiducioso di rimettere a Dio gli orientamenti della vita, riconoscendo in essi la sua volontà che è la nostra santificazione.

3. IL SEGNO CREDIBILE DELLA SANTITÀ
L’attenzione ai poveri è una costante della vita dei santi. Ciò che infatti accomuna queste persone è l’esemplarità della vita caritatevole e misericordiosa, attestazione di un sentimento molto singolare che è la commozione viscerale. Esso è condiviso con il messia; anzi è mutuato dalla profonda e desiderata amicizia con lui. Il santo, in altri termini, è uno che ha imparato a sentire il bisogno dell’altro con la sensibilità di Gesù. È chiaro che tale assimilazione non è immediata, come forse si potrebbe pensare. Essa nasce da una lunga e faticosa ascesi. Paolo in Fil 2, 5, esortando ad avere gli stessi sentimenti di Cristo, spiega che tale sensibilità si matura a forza di imparare a collocarsi nella sfera dell’abbassamento del Figlio di Dio. La disposizione all’umiltà così non è astratta: essa richiede una scelta, libera, generosa, razionale, che l’apostolo esemplifica con una frase che ha valenza fortemente ascetica: «ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso (allèlous egùmenoi uperèchontas eautòn), senza cercare il proprio interesse (me ta eautòn èkastos skopùntes), ma anche quello degli altri» (Fil 2, 3-4). Il nodo di questa sensibilità, che è quella di Gesù, sta nell’esplicitazione di questi due verbi: uperèchein che vuol dire «tenere su», «alzare», «oltrepassare» e skopèin che significa «guardare», «osservare», «cercare di raggiungere». Il loro significato svela il modo con cui la vita di un santo diventa caritativa, considerato quanto asserisce Lumen gentium al n. 40 sulla santità che è perfezione di carità: «È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano».
La santità non è appannaggio di qualcuno che eccelle rispetto ad altri, bensì eredità battesimale partecipata a tutti, in virtù del messianismo di Gesù, di quella coeredità che si condivide per il dono della figliolanza divina (cfr. Rm 8, 17). Ed essa pertanto è «pienezza di vita cristiana»: motivo di vera tensione, sia per ragioni intrinseche alla nostra scelta discepolare, sia perché è compito dei discepoli di Gesù umanizzare il mondo. Tale pienezza procede dalla carità, cioè dal modo con cui Gesù ha mostrato di accogliere gli altri. Anche se i gesti filantropici hanno sempre grande valore nella relazione con chi si trova nel bisogno, quello che conta è la partecipazione al sentimento di Cristo, a questo sentire viscerale con cui il messia ha inaugurato il tempo della redenzione. Ciò significa concretamente che la carità sta davvero umanizzando il mondo, pervaso da questa lunga onda messianica che lo coinvolge e lo santifica attraverso la vita esemplare di uomini e donne silenziosi e aperti alla misericordia per gli altri.
Tale considerazione lascia trapelare la grande responsabilità dei discepoli di Cristo, inviati a prolungare questa stupefacente e indispensabile azione messianica. Occorre cioè che essi comprendano l’impellenza della santificazione del mondo, che passa attraverso la loro docile partecipazione al messianismo di Gesù. Diventare santi vuol dire, in ultima analisi, accettare che la visceralità del messia ci pervada, plasmando e educando il nostro modo di incontrare e accogliere gli altri. La santità è sì perfezione di carità, a condizione però che i gesti siano impregnati del sentimento di Gesù. Ed è quello che di fatto rende attraente la vita dei nostri santi, ove l’eccellenza non sta nelle loro azioni prodigiose, bensì nella trasmissione di quest’importante sentimento che può persino addurre la guarigione fisica. I miracoli infatti hanno quest’origine con uno scopo ben preciso: elevare a dignità chi vive situazioni di disprezzo ed emarginazione. Rendere felici gli altri appartiene a questo processo di santificazione del mondo che incede, grazie alla testimonianza di chi sta imparando a sentire con la visceralità di Cristo. I poveri guariscono dalle loro miserie, perché entra in circolo nella loro vita il sentimento messianico, partecipato ovviamente da colui nel quale è maturato un atteggiamento sorprendentemente aperto, libero, gratuito.
Fare la carità ha talvolta motivazioni equivoche, non del tutto trasparenti. Il gesto solidale rischia l’autoreferenzialità, anche quando le intenzioni, nobili e profonde, sembrano ispirarsi ad amore incondizionato. Non è infatti facile discernere la santità nel gesto solidale, il quale, in virtù di questo mandato messianico, dovrebbe essere naturalmente impregnato del sentimento di Gesù. Papa Francesco, in Gaudete et exsultate al n. 105, dà un’indicazione preziosa: «Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia». È chiaro che qui per misericordia s’intende la conformazione al sentire di Gesù, al suo modo d’accogliere mosso dal sentimento della commozione: atteggiamento questo che riecheggia pienamente la misericordia di Dio (cfr. Mt 5, 48). Se vogliamo quindi che il mondo ritrovi la via dell’umanizzazione, che è la sua santificazione, occorre che la carità, nei suoi gesti, sia manifestazione di questa misericordia. I santi, la cui vita esemplare è fondata esclusivamente sulla carità, lasciano trasparire la grande sollecitudine di Dio, sia a partire dalle parole che, seppur ammoniscono, trasmettono consolazione, sollievo, aiuto, sia dai loro gesti che additano e richiamano la dirompente azione della signoria divina a partire dal basso.
La puntualizzazione di Papa Francesco, sul discernimento dei nostri gesti di carità, è significativa. La santità non può essere frutto di predestinazione. Diventiamo santi a forza di esercitarci nella carità, la cui trasparenza dipende dalla maturazione di questo sentimento di Gesù. La commozione viscerale, ganglio vitale del processo di solidarietà, cresce in noi nella misura in cui ci sottoponiamo ad una duplice azione ascetica. La prima, tornando a Fil 2, 3-4, è costituita da un atteggiamento di manifesta umiltà che consiste nel considerare l’altro superiore a se stessi. Il verbo uperèchein (tenere su, alzare, oltrepassare) lascia intendere, come si è visto, un preciso modo di incontrare le persone, rilevando in esse aspetti positivi che procurano elogio, apprezzamento, stima. Si tratta di una pratica importante che consente all’altro di sentirsi accettato e voluto bene. Ciò dispone chiaramente all’ottimismo e quindi ad una visione più costruttiva della propria esistenza, più umoristica – direbbe Papa Francesco nell’Esortazione (cfr. nn. 122-128). Chi infatti incontra una persona in santità di vita ha la sensazione istantanea di sentirsi pacificato, gioioso, riconciliato. Il santo, che ha maturato quest’atteggiamento di misericordia, «illumina – dice ancora Papa Francesco in Gaudete et exsultate al n. 122 – gli altri con un spirito positivo e ricco di speranza». Egli infonde nei cuori delle persone un particolare sentimento di letizia che porta a dissipare gli umori melanconici e a sentire in pienezza il senso della realtà attorno a sé. Il verbo paolino esprime ancora un’altra sfumatura relazionale: saper andare oltre i difetti degli altri. È una pratica non facile da attuare, indispensabile però per crescere nel sentimento di Gesù. La sua ammonizione sul giudizio (cfr. Mt 7, 1-5), frutto sempre di preconcetti, riguarda la formazione su un modo nuovo di incontrare e accogliere, mosso esclusivamente dalla misericordia di Dio.
La seconda azione ascetica scaturisce dal senso letterale del verbo skopèin (guardare, osservare, cercare). Anche questa pratica ha bisogno di molta esercitazione, considerando le molteplici omissioni, talvolta non volute, che sperimentiamo nel rapporto con gli altri. Avere il colpo d’occhio della situazione, come Maria di Nazareth alle nozze di Cana (Gv 2, 1-11), è frutto di un travaglio possente sul nostro egoismo, sul nostro modo di relazionarci mirato soltanto ai nostri interessi. Il decentramento da sé, generoso, solidale, incondizionato, che fa spazio all’altro, che consente di cogliere con tempestività il bisogno altrui alla maniera del samaritano (cfr. Lc 10, 33-35), si forma dalla reiterazione dei buoni propositi. Si tratta, in altri termini, di una plasmazione che deve avvenire ob ovo, accettando che la conversione sia permanente, continuativa, nella consapevolezza che bisogna sempre ricominciare daccapo. La maturazione di quest’atteggiamento nasce dal saper riporre la nostra attenzione sull’amore di Cristo, dal desiderio di essere suoi testimoni per quello che egli ha generato con la sua donazione in croce. Questo – direbbe l’apostolo in 2Cor 5, 14 – è ciò che ci spinge o meglio «ci tormenta» (sunèchei emàs) nel fare il bene. La santità è contagiosa, perché i bisogni degli altri sono diventati per noi tormento, dolore, sofferenza. Ci si affligge per le loro miserie, ingiustizie; ci si lascia inquietare, per quella commozione viscerale che Cristo partecipa a coloro lo seguono, avendo essi riconosciuto la potenza del vangelo: «Gesù divino maestro – prega il Servo di Dio, Mons. Giaquinta – che dal cielo scendesti per donare l’abbondanza della grazia, accrescila in noi e fa’ che diventi fiume che trabocca nella vita eterna. Tu, che del dolore volutamente scegliesti l’abisso e nell’Eucaristia ti lasci cibo dei figli degli uomini, facci comprendere la sublimità di tale esempio. Il fuoco acceso dal tuo amore consumi le scorie della nostra mediocrità e ci dia la forza di seguire l’invito alla perfezione infinita del Padre». (G. Giaquinta, Tutti santi, tutti fratelli, Edizioni Pro Sanctitate, Roma 2004)

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