Buono e fedele servitore

Voglio raccontare un breve apologo contemporaneo e farci sopra qualche riflessione così alla buona. Allora cominciamo parlando di John Allen Chau ....

Voglio raccontare un breve apologo contemporaneo e farci sopra qualche riflessione così alla buona. Allora cominciamo parlando di John Allen Chau. Un giovane americano alquanto “improprio”. Laureato in medicina di emergenza, collaboratore della associazione no profit “more than a game”, che insegna a giocare a pallone ai bambini delle zone di guerra. Per questo motivo, John aveva vissuto in Iraq e in Siria. Figlio di un rifugiato cinese arrivato in America durante la Rivoluzione Culturale, il ragazzo era stato anche volontario in un campo che accoglie bambini profughi a Tulsa, nello Stato dell’Oklahoma. Apparteneva ad una piccola congregazione protestante.
Una sorta di missionario se si vuole un po’ bizzarro: documentava tutto ciò che faceva su Instagram, compresa la sua attività missionaria. Un miscuglio di religiosità all’antica e modernità tecnologica, molto americano direi. Sempre alla ricerca di cose estreme, John si reca nello scorso novembre all’isola di North Sentinel, nel golfo del Bengala, per avvicinare ed evangelizzare gli indigeni locali che vi vivono da migliaia di anni e rifiutano qualsiasi contatto con l’esterno. L’accesso all’isola, che fa parte dell’arcipelago delle Andamane, è vietato, è opportuno sottolinearlo, dalle autorità indiane, per preservare le tradizioni della tribù indigena e la fauna endemica, necessaria al suo fabbisogno.

Breve: John si reca lì illegalmente, viene accolto in modo ostile e alla fine viene ammazzato. Fra il primo approccio e la morte ha avuto il tempo di raccontare in un diario l’ostilità degli indigeni e la sua ferma volontà di evangelizzarli. Sa di rischiare la pelle e raccomanda di non prendersela con gli indigeni nel caso che lo facciano fuori: “Sto cercando di stabilire il regno di Gesù sull’isola… non condannate i nativi se io sarò ucciso”. Il che, appunto, accade. Quelli che lo hanno accompagnato (illegalmente) sull’isola denunciano il caso e vengono arrestati per violazione di legge. La famiglia di John subito emette un comunicato in cui spiega che il suo era un viaggio d’amore, che gli indigeni sono già da loro perdonati, e fa appello alla liberazione per i pescatori arrestati.
Le autorità indiane, hanno effettuato alcuni tentativi di avvicinamento all’isola nel tentativo di portare via la salma di Chau dalle sabbie dei sentinelesi, ma hanno infine rinunciato.
Fin qui i fatti: cui direi di aggiungere, perché tutto sia ben chiaro, che la rinuncia delle autorità indiane al recupero del corpo si inquadra nella più generale loro politica di favorire l’isolamento di North Sentinel per preservarne intatto l’ambiente anche antropico.

Ecco, il prossimo 24 marzo si celebra la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. Pregheremo e digiuneremo anche per John Allen Chau? Vediamo un po’.
Intanto l’intera storia, perfettamente vera anche nei suoi risvolti tecnologici, sembra trapiantata dall’ottocento: quando lo slancio missionario, soprattutto protestante, accompagnava l’imperialismo europeo, e ne era anche strumento, più o meno consapevolmente. I missionari erano convinti di portare aiuto non solo spirituale alle presunte oscurità pagane, ma altresì di essere strumenti per la “civilizzazione” dei nativi: insomma, per essere brutalmente sintetici, di aprire loro la “superiore” condizione della civiltà europea.
Oggi, peraltro, una visione del genere è oramai totalmente estranea alla consapevolezza di qualunque comunità cristiana. Lo stesso John parlava della necessità di portare Cristo agli indigeni, e non il modello di vita occidentale: del resto, si sa, la cultura occidentale è ormai da tempo impegnatissima, nella sua stragrande maggioranza, all’autocritica del proprio passato: molto spesso con l’infelice esito di gettare, oltre l’acqua sporca, anche il bambino di quei valori che da noi sono nati – quelli dei diritti dell’uomo per intenderci – anche se poi siamo i primi ad averli calpestati.

Sullo stesso concetto di “missione”, nell’ambito propriamente cattolico, oltre alla benemerita attività di molti, moltissimi, esiste una furiosa polemica. Si vuole infatti evitare anche l’ombra del sospetto di essere avanguardia religiosa di ben altre penetrazioni di natura economica e politica. È un dibattito che non ci sentiamo di riportare in questo breve spazio: certo che dal “compelle intrare” di Agostino fino ad oggi, i cristiani si sono sempre interrogati sui molteplici aspetti della loro chiamata alla “missione”.

Come che sia, alla luce delle tendenze largamente prevalenti, seppure opposte fra di loro, nella opinione pubblica del nostro mondo occidentale, il gesto di John Allen Chau sarebbe certamente condannabile. Una parte – in cui sono largamente presenti anche fedeli cattolici – dirà che si trattava di un matto, che al giorno d’oggi andare in stile missionario dell’ottocento a predicare fra i “pagani” è contrario al politicamente corretto, alla autodeterminazione dei popoli, e mostra scarso o nessun rispetto alla cultura dei nativi, che in tante precedenti occasioni è stata massacrata dall’imperialismo occidentale: il quale ha effettivamente ridotto anche troppo spesso plaghe ridenti in osceni monumenti al degrado e al consumismo, anche se il più delle volte proprio i missionari sono tra coloro che hanno contrastato il fenomeno.
Un’altra parte, invece, anche se magari non mancherà di gridare alla barbarie dei “negri” di turno, non potrà non accorgersi che in fondo il respingimento del giovane missionario si ispira a quei valori di identità culturale, sovranità, e “essere padroni in casa propria” che stanno obiettivamente riscuotendo sempre maggiore credito nei paesi europei e anche in America. Se l’è andata cercare, diranno i più. E anche questo in fondo è vero. Come è vero che questa disposizione mentale è, anche essa, condivisa da un buon numero di cattolici.

Ora, noi evitiamo di prendere partito su una vicenda come questa: che però è una buona occasione per meditare un po’: cosa vuole il Signore da noi? Che per rispetto delle identità culturali a rischio di contaminazione si rinunci senz’altro ad annunciare il Vangelo dove questo non è gradito? Ovvero il Signore ci chiede, al contrario, di esserci sempre e comunque infischiandoci del fatto che dopo di noi possa arrivare chi è molto più interessato ad altre cose che non alla salvezza e alla vita eterna?
A me sembra che la seconda delle due alternative sia la migliore, anche se pure lei è viziata da molte, troppe reazioni di contorno.
Dunque non invito tutti e me stesso a recarci da domani all’isola di North Sentinel per farsi ammazzare come il povero John. Questo no. Ma cogliere l’occasione per pensarci un po’ su, questo invece sì.
Perché sarà stato un bislacco, un americano matto un po’ da film. Ma John Allen Chau, seppure con modalità un po’ particolare, missionario era, e da martire è morto. Non cercava il martirio in modo particolare, aveva anzi paura di morire come risulta dal suo diario: “Signore aiutami non voglio morire” aveva scritto dopo il primo infelice contatto con gli indigeni. Così non è stato, così il Signore non ha voluto. Ecco, io continuerò a pensarci su, e certamente il 24 marzo pregherò per lui, nella certezza, scusate la presunzione, che lui sia stato accolto nella casa del Padre: “bene hai fatto, buono e fedele servitore”.

Alberto Hermanin


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