Urgenza della fraternità

Un appello della Conferenza Episcopale Francese - a cura di Paola Assenza e Mirella Scalia

Il 22 marzo scorso la Conferenza Episcopale francese ha pubblicato un appello dal titolo “urgenza della fraternità”, sulla problematica del fine vita: richiamando la fraternité che è a fondamento della Repubblica, esprime innanzitutto la piena compassione verso i fratelli e le sorelle in condizione di fine vita e analizza le contraddizioni e le conseguenze fortemente problematiche della norma approvata in Francia, che in nome di una malintesa autodeterminazione abbandona a sé stesso il malato. Anche in Italia, dopo l’approvazione della legge sulle DAT nella precedente legislatura, è sempre più forte oggi la spinta a porre in agenda la discussione sull’eutanasia.
‘Urgenza della fraternità’ è tema che, alla scuola di Giaquinta, ci interpella direttamente anche alla luce del tema annuale della riflessione del
Movimento Pro Sanctitate: Mistica della fraternità, pienezza dell’uomo. “La fraternità mentre ha avuto un suo notevole influsso sociale presso il popolo di Israele e nei primi secoli cristiani, ha invece una incidenza assai scarsa nei nostri tempi. È possibile ipotizzare quali sarebbero gli influssi sociali e anche politici derivanti dalla attuazione della fraternità spirituale?… Il samaritano, simbolo e realtà di amore fraterno, “deve tornare al suo posto giacché il mondo del dolore senza la sua figura, diventa un purgatorio o addirittura un inferno. E quando si rifletta che l’episodio del ferito di Gerico è simbolo trasparente dello stato generale dell’umanità, si capisce come la funzione “del”, anzi, “dei” samaritani, diventi indispensabile (da La rivolta dei samaritani).

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Quali(1) che siano le nostre convinzioni, il fine vita è un tempo che vivremo tutti e un’inquietudine che condividiamo. Ciascuno deve quindi potervi riflettere il più serenamente possibile, schivando gli scogli delle passioni e delle pressioni.
Vogliamo anzitutto esprimere la nostra piena compassione verso i nostri fratelli e sorelle in “fine vita”, come la Chiesa ha sempre cercato di fare. Essi si presentano nella loro debolezza, talvolta estrema. La loro esistenza è un appello: di quale umanità, di quale attenzione, di quale sollecitudine daremo prova verso di loro, che vivono in mezzo a noi?
Salutiamo i professionisti della sanità che procurano una qualità di vita più distesa possibile, nel fine vita, grazie alla loro competenza tecnica e alla loro umanità – tanto nel quotidiano quanto nelle situazioni di urgenza. Alcuni tra loro sono impegnati, talvolta con forti convinzioni personali, nelle cure palliative. Grazie a loro e allo sforzo nell’impiego di tali cure, molti nostri concittadini vivono in modo tranquillo il loro fine vita.
Ciononostante, tali cure non sono sufficientemente sviluppate e le possibilità di sollievo della sofferenza, sotto tutte le sue forme, non sono abbastanza conosciute. È urgente combattere questa ignoranza, fonte di paure che non sono mai buone consigliere e di cui si nutrono i sondaggi.
Radicati come siamo nella totalità del territorio, deploriamo le disparità di accesso alle cure palliative, così come pure l’insufficienza di momenti formativi proposti al personale medico e paramedico, cosa che genera sofferenze talvolta tragiche. Ecco perché l’urgenza consiste nel proseguire lo sviluppo delle cure palliative perché ogni persona che ne abbia bisogno possa, secondo la legge del 9 giugno 1999, avervi accesso, quale che sia il luogo in cui vive, comprese le case di riposo (medicalizzate o meno che siano).
A causa di tali carenze e della enfasi mediatica attribuita ad alcuni casi, in molti reclamano un cambiamento della legge nel senso di una legalizzazione dell’assistenza medica al suicidio e dell’eutanasia. A fronte di tale richiesta, affermiamo la nostra opposizione etica per almeno sei ragioni:

1. L’ultima legge è stata votata recentemente, il 2 febbraio 2016. Facendo seguito a quella del 22 aprile 2005 – la cui risonanza fu intenzionale – essa prosegue nello sforzo di una presa in carico responsabile e collegiale da parte del personale per garantire un fine vita tranquillo. La sua applicazione è ancora largamente in cantiere e richiede una formazione appropriata. Valutare caso per caso come accompagnare al meglio ogni persona in stato di forte vulnerabilità richiede tempo, discernimento e delicatezza. Cambiare la legge manifesterebbe una mancanza di rispetto non solamente per il lavoro legislativo già compiuto, ma anche per il paziente e progressivo impiego del personale: la cui urgenza è che gli si dia del tempo.

2. Forte della fraternità che proclama, come potrebbe lo Stato, senza contraddirsi, promuovere l’aiuto al suicidio o l’eutanasia – per quanto regolamentati – mentre sviluppa dei piani di lotta contro il suicidio? Significherebbe iscrivere nel cuore delle nostre società la trasgressione dell’imperativo civilizzatore: «Non ucciderai». Il segnale inviato sarebbe drammatico per tutti, e in particolare per le persone in situazione di grande fragilità, spesso strattonate da questa domanda: «Non sarò un peso per i miei cari e per la società?». Quali che siano le sottigliezze giuridiche ricercate per soffocare i problemi di coscienza, il gesto fratricida s’innalzerebbe nella nostra coscienza collettiva come una questione repressa e inevasa: «Cos’hai fatto di tuo fratello?».

3. Se lo Stato affidasse alla medicina l’incarico di eseguire queste domande di suicidio o di eutanasia, parte del personale medico sarebbe coinvolto – suo malgrado – a pensare che una vita non sarebbe più degna di essere vissuta, ciò che è contrario al Codice di deontologia medica: «Il medico, al servizio dell’individuo e della sanità pubblica, esercita la sua missione nel rispetto della vita umana, della persona e della sua dignità». Secondo Paul Ricoeur e nella scia della tradizione ippocratica, la relazione di cura è per sua natura un “patto fiduciale” che unisce pazienti e curanti e che proibisce a questi ultimi, in nome di tale dignità, di fare volontariamente del male all’altro e tantomeno di farlo morire. Uccidere, anche pretendendo di invocare la compassione, non è in alcun caso una cura. È urgente salvaguardare la vocazione della medicina.

4. Anche se una clausola venisse a proteggere il personale medico e paramedico nella loro obiezione di coscienza, che cosa ne sarebbe delle persone vulnerabili? Nella loro autonomia, esse hanno bisogno di fiducia e d’ascolto per confidare i loro desideri, spesso ambivalenti. Quale sarebbe la coerenza dell’impegno medico se, in alcuni luoghi, il personale medico o paramedico fosse facilmente disposto a dare seguito ai loro desideri di una morte provocata chimicamente… mentre altrove il personale accompagnasse i pazienti verso una morte naturale e confortevole, mediante un ascolto paziente e il sollievo delle diverse sofferenze? La vulnerabilità delle persone – giovani e meno giovani – in situazione di dipendenza e di fine vita invoca non un gesto di morte ma un accompagnamento solidale. La tristezza di quanti domandano talvolta che si metta fine alla loro vita, se non è stata prevenuta, dev’essere ascoltata. Essa obbliga a un accompagnamento più attento, non a un abbandono prematuro al silenzio della morte. Ne va di un’autentica fraternità, che è urgente rinforzare: essa è il legame vitale della nostra società.

5. I promotori dell’aiuto al suicidio e dell’eutanasia invocano «l’autodeterminazione del malato, il suo desiderio di essere padrone del proprio destino ». Essi pretendono che «l’esercizio di questo diritto non tolga nulla a nessuno. È anzi il tipo stesso della libertà personale, che non esonda mai sulla libertà altrui». Ma che cos’è una libertà che, in nome di un’illusoria autodeterminazione, rinchiuderebbe la persona vulnerabile nella solitudine della sua decisione? L’esperienza attesta che la libertà è sempre una libertà in relazione, grazie alla quale il dialogo s’intesse affinché chi cura apporti un bene effettivo. Le nostre scelte personali, che lo si voglia o no, hanno una dimensione collettiva. Le ferite del corpo individuale sono delle ferite del corpo sociale. Se alcuni fanno la scelta disperata del suicidio, la società ha il dovere, anzitutto, di prevenire questo gesto traumatizzante. Tale scelta non deve entrare nella vita sociale per mezzo di una cooperazione legale al gesto suicida.

6. Reclamare sotto una qualsivoglia forma che si tratti di un “aiuto medico a morire” significa immaginare, come è il caso in alcuni Paesi vicini, delle istituzioni specializzate nella morte. Ma allora quali istituzioni? E con quali finanziamenti? Orbene, questo significa condurre il nostro sistema di Sanità a imporre al nostro personale medico e paramedico, nonché ai nostri concittadini, un angosciante senso di colpa, dal momento che ciascuno potrebbe essere condotto a interrogarsi: «Non dovrei considerare, prima o poi, di mettere fine alla mia vita?». Questa domanda sarà fonte di inevitabili tensioni per i pazienti, per i loro cari e per il personale. Peserebbe gravemente sulla relazione medica. Non confondiamoci sulle urgenze!

A fronte dei turbamenti e dei dubbi della nostra società, come raccomanda Jürgen Habermas, offriamo il racconto del “buon Samaritano”, che si fa carico dell’“uomo mezzo morto”, lo porta in un “ostello” ospedaliero ed esercita la solidarietà malgrado le “spese” che le sue “cure” richiedono. Alla luce di questo racconto, facciamo appello ai nostri concittadini e ai nostri parlamentari per un sussulto di coscienza: si edifichi sempre più in Francia una società fraterna, in cui tutti ci prendiamo cura – individualmente e collettivamente – gli uni degli altri. Questa fraternità ispirò l’ambizione del nostro sistema sanitario solidale all’indomani della Seconda guerra mondiale. Che faremo di siffatta ambizione? La fraternità riguarda una decisione e un’urgenza politiche che noi invochiamo con tutto il cuore.


(1) Dobbiamo alla cortesia del Dottor Giovanni Marcotullio, che l’ha pubblicata sul suo blog “Breviarium”, la traduzione in italiano del documento, la cui versione originale si trova sul sito della Conferenza Episcopale Francese

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