La mistica della fraternità secondo gli Atti degli Apostoli

APPROFONDIMENTI

Uno dei tratti più caratteristici della personalità e dello stile di papa Francesco consiste senza dubbio nella capacità di sorprendere attraverso l’uso di formule – nella retorica moderna diremmo slogan – tanto inusuali quanto efficaci sul piano comunicativo, soprattutto per la loro immediatezza e concretezza disarmanti.
In questa breve riflessione vorrei soffermarmi su un’espressione che ritorna più volte nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, laddove il pontefice parla della mistica della fraternità. Associare un’esperienza altamente spirituale come la mistica ad una molto concreta come la fraternità è certamente sorprendente, anche se, come vedremo tra breve, per nulla fuori luogo.
Cosa intenda il papa con tale espressione lo si capisce leggendo il n. 87 dell’Evangelii Gaudium: «Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da sé stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo!».
Se da un lato l’esperienza mistica, per sua natura, comporta un’uscita da se stessi per realizzare l’unione piena con Dio, dall’altro il papa non manca di sottolineare che tale unione, pur mantenendo la sua natura “spirituale”, avviene in primo luogo mediante l’incontro “concreto”, “corporeo” (non “virtuale”) con l’altro, scardinando così le logiche egoistiche che spesso caratterizzano i nostri stili di vita: «lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano» (Evangelii Gaudium 92). Non c’è dunque alcuna contraddizione tra la dimensione “spirituale” dell’esperienza mistica e quella “corporea” della carità fraterna, anzi, le due si compenetrano a vicenda confermando così l’adagio giovanneo: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4, 20).
La mistica della fraternità di cui parla il papa trova un radicamento singolare in quello scritto così prezioso per la vita della Chiesa che è il libro degli Atti degli apostoli. Personalmente amo considerare il racconto degli Atti come uno specchio nel quale ogni comunità ecclesiale è chiamata a riflettersi non solo per contemplare la propria bellezza, ma anche per scorgere quelle imperfezioni che ne turbano la serenità e che potrebbero nascondere mali mortali. Vorrei allora sviluppare questa breve riflessione alla luce di un passo assai significativo degli Atti degli apostoli, dove la mistica della fraternità viene messa particolarmente in rilievo come elemento vitale per la vita stessa della Chiesa: At 2, 42-47, il primo “sommario” relativo alla vita della comunità nata dalla Pentecoste.
Nel racconto di At 2, 42-47 Luca introduce una breve ma assai significativa descrizione della prima comunità cristiana di Gerusalemme: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati».
Anzitutto è bene evidenziare, fin dall’inizio, che la profonda comunione che lega tra loro i credenti scaturisce direttamente dall’esperienza della Pentecoste, narrata pochi versetti prima. Non si tratta perciò di semplice filantropia, ma di autentica carità, espressione esteriore di una grazia interiore che proviene da Dio.
Certo, alcuni studiosi ritengono che Luca descriva qui un quadro ideale della prima comunità cristiana, che come tale non sarebbe mai esistita. Per questo motivo si pone una domanda: è veramente possibile vivere una siffatta comunione? Ha senso parlare seriamente di una mistica della fraternità? Oppure si tratta solo di utopia?
Ad una lettura attenta degli Atti degli apostoli dobbiamo riconoscere che Luca è tutt’altro che uno scrittore ingenuo e idealista. Come annota D. Marguerat, «gli antichi, sia ebrei che greci, hanno tratteggiato del loro passato il ritratto idealizzato di un’età dell’oro; questo lavoro della memoria non consisteva tanto nella falsificazione della storia quanto piuttosto nella scelta dei tratti adatti a servire da modello per il presente. Il quadro invidiabile di una comunità unita e fervente, che presenta qui il libro degli Atti, è conforme al genere; il seguito del racconto mostrerà al lettore che questo stato idilliaco non risparmia alla comunità né l’ostilità del mondo esterno (4, 1-22; 5, 17-42), né le crisi interne (5, 1-11; 6, 1; 15, 4-40)». Lo scopo del sommario di At 2, 42-47 è dunque di annunciare un programma di vita comunitaria erigendola a modello per la Chiesa cristiana di tutti i tempi.
Va poi notato che l’atteggiamento fondamentale che caratterizza la prima comunità cristiana è la perseveranza: i credenti trasformati dall’esperienza della Pentecoste aderiscono fermamente e con profondo impegno alla fede battesimale confermata dal dono dello Spirito. Il verbo greco utilizzato – proskarterountes, “erano perseveranti” – lascia trasparire una sfumatura di ostinazione, di tenacia nella persistenza nella fede, nonostante le difficoltà e gli ostacoli. Ma a che cosa si aggrappavano i credenti con tutta la loro forza? Luca elenca a questo punto quattro atteggiamenti, quattro caratteristiche identitarie della chiesa primitiva, che costituivano i pilastri su cui poggiava la fede dei primi cristiani: l’insegnamento degli apostoli, la comunione, la frazione del pane e le preghiere. In questa nostra riflessione vorrei soffermarmi sulle due caratteristiche centrali, ovvero la comunione e la frazione del pane, poiché in esse si manifesta pienamente quella che il papa definisce mistica della fraternità.
Per Luca è quasi scontato che il battesimo introduca la persona in una rete di relazioni sociali contrassegnata dall’esperienza della comunione e della fraternità. Nei vv. 44-45 l’autore degli Atti spiega concretamente cosa significhi ciò: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno». Si noti anzitutto l’insistenza sulla totalità che pervade l’esperienza comunitaria, totalità che però non significa soppressione arbitraria dell’individualità delle persone: «tutti… ogni… tutti… ciascuno». Sicuramente per un cristiano di provenienza greca tale affermazione avrebbe potuto richiamare alla memoria un proverbio famoso a quel tempo: «ciò che è degli amici è comune», un detto che implicitamente avrebbe risvegliato il desiderio del ritorno all’età dell’oro. Per Luca però tale desiderio non si traduce in semplice nostalgia del passato, ma trova una singolare attualizzazione proprio nel vissuto attuale della comunità cristiana. I cristiani perciò non sono dei nostalgici proiettati verso il passato che non c’è più, e non sono nemmeno degli ingenui che sperano in un futuro lontano, ma sono uomini e donne che vivono qui e ora la loro fede, la loro speranza e la loro carità, nella consapevolezza che dal passato c’è sempre da imparare e nel futuro si deve sempre sperare. Luca poi enuncia concretamente le modalità della condivisione economica: i beni devono essere condivisi «secondo i bisogni di ciascuno», in modo tale da impedire che, come affermerà più avanti in At 4, 34, «non ci fosse un solo povero tra loro». Non si tratta perciò di instaurare una fraternità basata su un comunismo ante litteram e non si tratta neppure di disprezzo verso i beni materiali. Piuttosto, per usare le parole di J. Dupont, «l’ideale perseguito non è precisamente quello della spoliazione e della povertà volontaria, ma quello di una carità che non può accettare che dei fratelli siano nel bisogno. Si abbandonano i propri beni non per desiderio di essere poveri, ma perché non vi siano poveri tra i fratelli». Luca si guarda bene dall’affermare che alla base di questo stile sta un semplice sentimento di amicizia reciproca, che pure è importante; piuttosto individua nella fede il perno attorno a cui ruota la vita comunitaria: l’evangelista infatti non dice “tutti gli amici”, ma “tutti i credenti”. Il cristianesimo non è un club di pochi intimi, ma è una comunità di fede. La fraternità cristiana non scaturisce perciò da sentimenti di semplice filantropia – anche se li integra perfettamente – ma proviene anzitutto dalla consapevolezza, acquisita grazie a Gesù e in virtù del dono dello Spirito, di essere figli di uno stesso Padre. Certamente la vicenda drammatica di Anania e Saffira (At 5, 1-11) metterà in guardia dal pericolo di un’eccessiva idealizzazione: costruire una simile comunione non è affatto impresa semplice, soprattutto per i tanti piccoli e grandi egoismi che continuano a serpeggiare nella vita dei credenti con i loro morsi talvolta letali.
La fraternità comunionale descritta da Luca trova poi una delle sue massime espressioni nella frazione del pane. Con tale formula l’evangelista si riferisce senza dubbio al pasto eucaristico, un pasto che, però, avveniva in un contesto di grande fraternità, a partire anzitutto dal luogo che lo ospitava, la casa, e dagli atteggiamenti che animavano il cuore dei credenti, la letizia e la semplicità di cuore. Se la gioia è il tipico segno lucano che esprime l’accoglienza della salvezza, la semplicità di cuore indica ancora una volta la retta intenzione e l’impegno totalizzante che doveva animare la prima comunità cristiana. La fraternità che caratterizza la comunità descritta dall’evangelista è dunque connotata dalla familiarità, dalla gioia e dall’assenza di atteggiamenti ambigui e poco sinceri. Insomma, non è difficile scorgere dietro queste righe una sottile provocazione che raggiunge anche le nostre comunità e le sollecita ad un serio esame di coscienza.
Vorrei concludere citando ancora un breve commento di D. Marguerat: «Iniziata nel vento e nel fuoco in occasione dell’evento fondatore (At 2, 1-4), l’epifania della Chiesa termina in una vita di comunione. Lo Spirito provoca la nascita di una comunità che non mira anzitutto a soddisfare i bisogni religiosi individuali, ma organizza un vivere insieme che testimonia una salvezza condivisa. Il vangelo non è quindi limitato al rango di credenza; esso crea una qualità di vita in cui la grazia ricevuta si esprime in attenzione ai bisogni degli altri e in condivisione delle risorse. Agli occhi dell’autore degli Atti, la forza evangelizzatrice della Chiesa consiste in questa relazione con Dio e con gli altri».
Mi pare che quest’ultima considerazione aiuti noi credenti ad approfondire, alla luce della Parola di Dio, il significato della mistica della fraternità così cara a papa Francesco, una mistica indispensabile per la Chiesa di oggi, che si trova ad affrontare la difficile – e al tempo stesso entusiasmante – sfida della nuova evangelizzazione. Certamente si tratta di un compito arduo dinanzi al quale tutti ci sentiamo piccoli e fragili, ma che non deve spaventare, perché proprio Luca ricorda che il Risorto non abbandona mai la sua Chiesa e costantemente la sostiene nella testimonianza della fede e nella predicazione del Vangelo: «Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2, 47).
Don Alessandro Gennari -Sacerdote della diocesi di Brescia, docente di Sacra Scrittura -

I commenti sono chiusi.