La rivoluzione della gioia evangelica

APPROFONDIMENTI

Papa Francesco, la Chiesa e il mondo

Cos’è la gioia? La maggior parte delle persone alle quali si rivolge questa domanda rispondono in modo tale da rivelare una certa confusione tra gioia e felicità. “La gioia è quando tutto mi va bene e allora sono felice”, “la gioia è quando riesco a realizzare i miei sogni”, e così via. Invece le due cose sono distinte. La gioia è qualcosa di diverso dalla felicità: la felicità è quel senso di contentezza quando le cose vanno bene a me, quando i miei progetti si realizzano e i miei sogni si avverano. La gioia invece, è sempre legata alla relazione con un’altra persona. Parte da me come risposta a ciò che un altro fa o pensa di me. La felicità è qualcosa che parte da me e ritorna in me; la gioia è l’effetto di una relazione che mi arriva da un altro. La gioia nasce spontanea quando scopro che sono amato da un altro, che qualcuno pensa a me con amore. La felicità cerco di costruirmela io dal mio interno; la gioia mi arriva, mi raggiunge, e cambia la mia vita da fuori.

La gioia nella Bibbia è l’effetto della presenza di Dio nel cuore dell’uomo, nella storia di Israele. È una gioia ben ordinata e serena, molto diversa dalla sfrenatezza orgiastica, dal culto disordinato e scomposto del piacere in tutte le sue forme, di cui danno prova i popoli pagani (nella quale ogni tanto pure Israele cade, come ad esempio nella storia del vitello d’oro).

Per non perdersi nella marea di citazioni della gioia nella Parola di Dio (le concordanze ne elencano ben 264) occorre tener presente le varie sfumature di significato dei termini greci che ricalcano le radici ebraiche.

Agalliasis rende qualcosa di simile all’“esultanza” in italiano: è la gioia collegata alle feste solenni di Israele, quando ci si ricorda della fedeltà di Dio per il popolo nei tempi passati, o si manifesta la fiducia che Dio tornerà a parlare in futuro, a fronte delle difficoltà del momento (come per esempio nell’esilio in Babilonia).

Euphrosyne sa più dell’“allegria”: è la gioia di stare insieme, soprattutto in occasione di banchetti o feste che diventano poi come un anticipo della gioia del Paradiso.

Chàirein, Charà è però il termine più importante, specie nel Vangelo: è quella che propriamente indichiamo col termine “gioia”: l’effetto benefico che nasce dalla presenza di Gesù nel mondo, della salvezza attuata colla sua stessa presenza. La gioia cristiana in senso stretto è legata quindi alla salvezza che Dio ha operato qui ed ora con la presenza di suo Figlio. L’effetto di questa presenza è sempre la gioia e ciò fin dal primissimo istante del suo concepimento: l’arcangelo Gabriele salutò Maria dicendole: “Chàire!”, cioè “gioisci, sta’ nella gioia!”. Gesù è gioia, dove passa tutto fiorisce, canta e grida di gioia, come dice il salmo 65: il Vangelo è pieno della gioia dei guariti dalle malattie, della gioia della gente nell’ascoltare la sua parola, nel vederlo e nel correre a salutarlo; racconta la gioia dei bambini che gli fanno festa intorno, la gioia dei vecchi che riconoscono in lui la salvezza di Dio (Simeone ed Anna), la gioia dei perdonati e dei graziati, che non fanno che parlare di lui nonostante i suoi stessi espliciti divieti, ecc…

È precisamente dalla gioia dell’incontro con Gesù che vediamo scaturire l’ “allegria” e la contentezza di cui papa Francesco ci parla un giorno sì e l’altro pure. La gioia del Vangelo è quell’atteggiamento positivo, benefico che scaturisce dall’aver incontrato la persona viva di Gesù. È un atteggiamento che di sua natura tende a comunicarsi, a cercare gli altri e a vivere insieme a loro: “Una grande gioia che sarà di tutto il popolo” dicono gli angeli ai pastori: non è una felicità individuale, una proprietà privata da consumarsi individualmente, una preda da gustarsi da soli. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo e costruisce il popolo. Qui tocchiamo con mano una delle caratteristiche più nuove del papato di Francesco. La sua “teologia del popolo” che è una vera scuola teologica, tipicamente latinoamericana e che noi europei stiamo appena cominciando a conoscere, vedendola in azione proprio in lui.

La teologia del popolo nasce in Sudamerica in cui le due realtà più evidenti e comuni a tutti gli Stati del continente sono i poveri e la fede cristiana. I popoli dell’America Latina hanno una personalità molto forte e compatta intorno a questi due elementi strutturali. Non sono come noi europei, che siamo nati dalla fede cristiana, ma l’abbiamo rinnegata nel costruire l’Europa. E neppure come noi italiani, che a stento ci riconosciamo in uno Stato che ha lasciato fuori la religione tra le sue componenti, e in una nazione che in realtà sono tante “piccole nazioni” diverse (che schematizzando un po’ si richiamano ai dieci stati preunitari).

Il “popolo” in America latina è una realtà ben compatta e ben oppressa, in cerca di una risposta originale al Vangelo che sia distinta dalle due teologie di importazione europea ed occidentale: la teologia liberale, in cui il Vangelo va a braccetto col capitalismo (a volte fin troppo, fino cioè a confondere il Regno di Dio con il benessere sociale) e la teologia della liberazione, in cui il Vangelo è piegato alla logica della lotta di classe marxista e leninista (e in quel caso la Redenzione e la Salvezza coincidono con l’abolizione delle classi e la dittatura del proletariato). La teologia del popolo si smarca da entrambe dicendo: qui tutti vogliono fare qualcosa per il popolo, ma solo il Vangelo di Gesù fa pensare ed agire direttamente il popolo stesso. Ecco allora l’importanza della spiritualità popolare, del sentimento immediato, semplice, spontaneo della fede presente in tanti popoli dell’America Latina anche se guardato con fastidio o con commiserazione in Occidente.

Il cuore di questo sentimento è proprio la gioia di sapere e di sentire la vicinanza di Gesù, specie tra i più poveri ed abbandonati, tra quelli delle “periferie”. Gesù sembra stabilirsi provocatoriamente proprio in quelle periferie più abbandonate, snobbando sia i salotti dei manager dell’economia e della politica, sia l’astratta ideologia che spinge alla violenza ed alla lotta armata. Lì è la casa della gioia, e da lì Francesco ama parlare al mondo, spiazzando col suo stile volutamente ed ostentatamente antiretorico tanti benpensanti e tanti tradizionalisti. Noi europei ed occidentali non siamo preparati a questo cambiamento così radicale, ed è chiaro che siamo esposti ad una sfida tutta interiore: siamo capaci di accettare le sorprese di Dio, le sue novità inattese? O pensiamo di tutto prevedere e incasellare nei nostri perfetti organigrammi e progetti?

La sfida di Francesco è precisamente la sfida della gioia: all’inizio di Evangelii gaudium dice apertamente che chi soffoca in mezzo ai beni materiali non ha la gioia che solo i poveri di Dio portano con sé. Non potrebbe esserci una posizione più diametralmente opposta tra queste due sensibilità: la Costituzione degli Stati Uniti, civiltà che noi europei abbiamo generato e che poi ci ha più o meno assorbito, è la prima al mondo in cui è enunciato apertamente un diritto alla felicità individuale (cioè esattamente a quella proprietà privata, quella preda da gustarsi da soli di cui abbiamo parlato prima); in altre parole, un diritto a mettere se stessi e le proprie esigenze al centro del mondo. La teologia del popolo enuncia invece chiaramente il principio della presenza di un Altro al centro del mondo, dal quale parte l’amore che suscita la gioia e reclama l’uguaglianza fra tutti gli uomini, tutti egualmente amati e dotati della dignità di figli di Dio Padre e di fratelli di Cristo Gesù.

Non è possibile citare testi della Evangelii gaudium a supporto di questa concezione, non perché non ce ne siano ma perché bisognerebbe citarla tutta! Lo stesso linguaggio di papa Francesco rappresenta un mutamento epocale nel magistero pontificio. Bergoglio infatti comunica essenzialmente in forma orale, attraverso le leggi proprie dell’oralità. Non solo nel senso che non ama lo scritto, l’esposizione teorica, la riflessione sistematica ed approfondita tanto care al suo predecessore Benedetto; ma anche nel senso che il suo stesso magistero, nella sua totalità è un racconto in presa diretta, che non si preoccupa affatto dell’esattezza delle espressioni adoperate e della esatta definizione del suo pensiero. Una noncuranza vertiginosa che molti leggono come incoscienza spericolata in un mondo mediatico in cui una parola è poca e due son troppe, ed ogni espressione è analizzata, sminuzzata, amplificata con un clic in tutto il mondo e può provocare morti e feriti sia in senso metaforico che drammaticamente reale.

Il racconto in diretta del resto non può che essere l’unica forma adatta ad esprimere la gioia di un incontro personale appena accaduto. Il perno del magistero di papa Francesco è la Messa quotidiana a S. Marta, nella quale racconta il suo incontro con Cristo avvenuto nell’ora di meditazione personale che precede immediatamente la celebrazione. Non ci sono testi scritti. I riassunti li lascia fare agli altri, alla Radio Vaticana, all’Osservatore Romano, alle parole di chi partecipa alla Messa. Il senso di certe espressioni particolarmente incisive è tranquillamente frainteso (come il famoso “Chi sono io per giudicare?” da molti preso come uno “sdoganamento” della condizione omosessuale da parte della Chiesa) e i malintesi si moltiplicano e si incrociano.

Francesco non si preoccupa affatto dell’inesattezza o della faziosità con cui le sue parole sono strappate, cucinate, rivendute per questo o quell’interesse di partito, di ideologia, di casta. Non si preoccupa neppure della censura che i media gli infliggono quando osa parlare in modo “stonato” rispetto al pensiero corrente del  mondo (aborto, eutanasia, lavoro, povertà). La sua rivoluzione consiste nel raccontare la sua gioia di essere e di vivere con Cristo, facendo crescere il bene e combattendo senza mezzi termini il male, anche quello nella Chiesa. Non crede alle analisi dei sociologi, o comunque non se ne lascia determinare. Così come non crede al “mito” del papato, ed anzi, si diverte a sgretolarlo con uno stile volutamente ed ostentatamente “popular” che fa rabbrividire i cattolici più intransigenti e tradizionali. Del resto questo “mito” ha ricevuto un colpo mortale con le dimissioni di Benedetto che, a mio parere, rappresentano una frattura colossale nel modo concreto che la Chiesa ha di pensare al papa e al papato. Francesco è entrato nel varco aperto da Benedetto ed ora lo sta allargando ed ampliando a modo suo, non senza critiche e resistenze (piuttosto sorde ma profonde) anche all’interno della Chiesa stessa.

Francesco non teme le opposizioni, e lo si vede bene con il Sinodo straordinario in due tempi sulla famiglia: una prassi mutuata anche questa dall’America Latina e che ha fatto storcere il naso a più di un monsignore di curia. Del resto qualunque parroco sa benissimo che quando si cambia parrocchia, i primi anni trascorrono nel cercare di adattare alla parrocchia nuova il metodo imparato nella vecchia parrocchia: è inevitabile. Ama le discussioni franche ed aperte ed ama lasciar passare il tempo per chiarificare posizioni e conseguenze di scelte che in un primo momento possono sembrare ottime, ma poi lo sembrano molto meno. Il tutto sempre in presa diretta, senza prevedere esattamente dove tutto questo porterà.

In sintesi, la gioia del Vangelo è un vero e proprio metodo per papa Francesco. E se ci lasciassimo contagiare un po’ di più da questo stile? Anche gli Apostoli davanti a Gesù risorto avevano paura di abbandonarsi alla gioia, e soltanto poco alla volta si sono resi conto della novità di ciò che era accaduto. Siamo quindi in buona compagnia…

Don Federico Corrubolo Parroco in Roma, Parrocchia Dio Padre Misericordioso

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