Custodire il creato?

È stato presentato a Copenaghen il rapporto della Agenzia ONU sui cambiamenti climatici. Migliaia di studiosi di decine di Paesi hanno contribuito a realizzarlo. E, sembra, il responso della scienza chiamata a raccolta dall’ONU è inequivocabile: primo, il riscaldamento globale esiste; secondo, è provocato dall’uomo; terzo, gli effetti sono comprovati dall’aumento del livello dei mari, lo scioglimento dei ghiacci e il proliferare di eventi meteorologici estremi. Documentati in modo inappellabile sono altresì il continuo aumento delle emissioni di gas serra dovuti all’uso dei combustibili fossili (come carbone e petrolio) e il conseguente aumento della temperatura media. Forse mai l’agenzia del Onu aveva usato un linguaggio così perentorio e sicuro.

Cosa ne deriva? Questo è un primo punto su cui riflettere in questa sede: lo “stress ecologico” non è infatti qualcosa che riguarda sole “le balene” e le loro difficoltà ad orientarsi che tante volte ci racconta la televisione; ovvero la scomparsa di rare specie animali e vegetali, fatti peraltro di per sé deprecabili. Una certa opinione pubblica sembra convinta che l’ambientalismo sia qualcosa che ha a che fare con improbabili “diritti animali”, come quello dei cavalli che secondo alcuni non dovrebbero essere “sfruttati” tirando le carrozzelle di Roma. La realtà è profondamente diversa: i cambiamenti climatici e lo choc ecologico conseguente hanno un potenziale di ricadute enormi prima di tutto sugli uomini. Si tratta di carestia, siccità, epidemie, fame, competizione selvaggia per le risorse alimentari e idriche e, come conseguenza, anche di guerra. Nel loro piccolo, le vicende italiane della “terra dei fuochi” configurano uno scenario non molto lontano da questo.

Che il mondo scientifico appaia ormai unanime nella valutazione dei rischi che stiamo correndo, i cui primi effetti cominciano già ora a manifestarsi, ci sembra già un fatto tale da richiamare la nostra attenzione. Infatti, orfana forse di ideologie messianiche che promettevano l’uomo nuovo grazie alla palingenesi rivoluzionaria, l’opinione pubblica dei paesi occidentali non ha trovato di meglio che “ideologizzare” anche i problemi dell’ambiente; tanto che oggi è percezione comune che quanti si preoccupano dei grandi cambiamenti climatici e delle loro potenziali ricadute drammatiche siano di “sinistra”, mentre chi nega queste previsioni – per la verità, sempre più flebilmente, si nega anche la realtà che il clima stia cambiando – quelli sono di “destra”.

Furiose dispute ideologiche si propagano sul tema, alimentate volta a volta dai rispettivi estremismi, come da un lato per esempio i già richiamati e insostenibili “diritti animali”, e dall’altro dal puro e semplice negazionismo di quanto abbiamo tutti sotto gli occhi. Con il risultato che anche le indagini scientifiche che dovrebbero per loro natura essere aliene dall’ideologia vengono negate o respinte a seconda delle pregiudiziali ideologiche: una riprova del fatto che dove manca un forte e condiviso tessuto etico la scienza, pur “bonum”, semplicemente “non sufficit”, non basta.

Senza prendere aprioristicamente partito per l’una o l’altra delle “ideologie” in lizza, tuttavia, un allarme così chiaramente espresso da pressoché tutto il mondo scientifico non può non interrogare le coscienze di tutti, e in particolare quelle dei cittadini dei Paesi più ricchi. In modo speciale poi interroga le coscienze dei cristiani: i quali sanno benissimo che la scienza non è onnisciente ma allo stesso modo sanno che il Signore ci ha dato la ragione perché ne facessimo uso, cominciando, perché no, proprio dalla conoscenza scientifica.

Cosa dice la questione ambientale alla coscienza cristiana?

Come esseri umani, non siamo meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha tanto strettamente uniti al mondo che ci circonda che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione! Non lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che colpiscono la nostra vita e le future generazioni” (Evangelii Gaudium, 215).

Ma il Magistero papale da tempo orami colloca questa problematica fra quelle su cui è più urgente sollecitare le coscienze dei fedeli. Con esiti, occorre dire, non particolarmente entusiasmanti nei risultati. I fedeli cattolici, come tali, non sembrano nella media essere più sensibili degli altri ai problemi ambientali: e se, come constata la Conferenza Episcopale Italiana nell’ultimo messaggio per la ‘giornata per la custodia del creato’, “siamo in un tempo di crescente consapevolezza ecologica”, questa crescita, pure innegabile a misura del crescere dell’evidenza del problema, non pare potersi attribuire a motivazioni specificamente legate alla scelta di fede.

L’impostazione teorica che i Pastori della Chiesa hanno dato alla questione ambientale è tuttavia esemplarmente corretta: respingendo ogni deriva ideologica inaccettabile, se ne collega infatti il cuore ad una più ampia “ecologia umana” secondo l’espressione usata da Benedetto XVI.

L’uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui (Lettera enciclica “Centesimus annus” di San Giovanni Paolo II, 1991).

Ed infatti risulta impossibile negare soprattutto oggi, di fronte alle evidenze che la scienza non smette di fornirci, che il problema di cui si tratta ha origini morali e spirituali. Esso si annida nel complesso di onnipotenza che sembra almeno in occidente l’ultimo rifugio dell’irrequietezza umana: solo che proprio gli straordinari progressi scientifici e tecnologici conseguiti sono essi che ci ammoniscono sempre più sulla nostra fragilità, in un certo senso si potrebbe dire sulla nostra condizione di “creature”: custodi si, ma non padroni e signori dell’universo né tanto meno di un pianeta che stiamo facendo del nostro meglio per snaturare e distruggere minacciando, molto prima di qualunque “balena”, il presente e il futuro dei nostri stessi figli.

E Benedetto XVI: “Gli Stati riflettano insieme sul futuro a breve termine del pianeta, di fronte alle loro responsabilità verso la nostra vita e le tecnologie. L’ecologia umana è una necessità imperativa. Adottare in ogni circostanza un modo di vivere rispettoso dell’ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l’uomo devono essere priorità politiche ed economiche… il cambiamento di mentalità in questo ambito, anzi gli obblighi che ciò comporta, deve permettere di giungere rapidamente a un’arte di vivere insieme che rispetti l’alleanza tra l’uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di scomparire. Occorre quindi compiere una riflessione seria e proporre soluzioni precise e sostenibili. Tutti i governanti devono impegnarsi a proteggere la natura e ad aiutarla a svolgere il suo ruolo essenziale per la sopravvivenza dell’umanità” (Udienza ad alcuni ambasciatori del 9 giugno 2011).

Finalmente, nel loro messaggio per la giornata della custodia del creato, i Vescovi italiani richiamano “le nostre Chiese italiane” ad “impegni conseguenti”, e primo fra tutti “la priorità dell’impegno culturale” e “la capacità critica per cogliere le ingiustizie presenti in un modello di sviluppo che non rispetta l’ambiente”. Ed è evidente che non hanno in mente le ingiustizie subite da altri che dagli uomini.

Siamo dunque ancora una volta di fronte ad un Magistero consapevole: che però agli effetti civili, per così dire, non sembra in grado di produrre apprezzabili effetti sulla consapevolezza dei fedeli e meno ancora sulla loro mobilitazione civile. Perché il problema è, naturalmente, politico, civile: si tratta di far ricadere le conseguenze della propria fede sull’intera comunità umana cui si appartiene, e prima di tutto su quella più vicina: sullo Stato. Quando il Papa di turno esorta “gli Stati” a riflettere, invita in realtà noi, e non altri, a farlo. Ove si vede ancora una volta che assumere su di sé le responsabilità proprie della fede, in un certo senso caricarsene, “tollere” i peccati del prossimo, non è astratta opera di pietismo religioso ma concreta azione a vantaggio dell’uomo: Storia degli uomini, storia di Dio.

Alberto Hermanin

I commenti sono chiusi.